“Conosco una città che ogni giorno si riempie di sole e tutto è rapito in quel momento”. Così Giuseppe Ungaretti, in un rapido frammento poetico, diceva di un’impressione per sempre fissata nella sua memoria nativa: la luce di Alessandria d’Egitto. Altri dissero quella città “il giardino olezzante”, Marinetti ne cantò che “Le nuvole rosee sono delizie lontane, fanfare di carminio”.
La mia famiglia ha abitato ad Alessandria d’Egitto per sedici anni, da quando mio nonno, giovane interprete, nel 1923 venne traferito dal vice-consolato di Tripoli di Siria a quello generale d’Alessandria, a due passi dalla Gare de Ramleh. Nella grande casa di Rue Nabi Daniel 19 è nata mia madre e qui quella giovane famiglia ha vissuto un arco non dimenticabile della propria esistenza. Quella stessa, centralissima strada, era in fondo l’immagine della maggiore di quelle speciali concordie multiculturali che allora segnavano le capitali del Mediterraneo, come già di Beirut e Smirne qui abbiamo visto.
Alessandria s’era affermata quale luogo di poteri e di piaceri, di visibilità lussuose e d’interessi segreti sin dall’ascesa di re Fuad I al trono dopo la prima guerra mondiale. Egli aveva il gusto della bellezza e del cosmopolitismo: da giovane era stato continuamente in viaggio fra Vienna, Torino, Parigi e Costantinopoli, possedeva una visione lucida e ampia della situazione nazionale ed internazionale; non era un filoarabo (la dinastia era di origine albanese), ma aveva un senso assoluto della dignità del paese su cui governava. Al fellah nilota Zaghloul preferì sempre il colto alessandrino Ismail Sidqi, ministro degli interni e poi primo ministro, acerrimo avversario del partito Wafd. Con lui creò uno stile politico e un modello di società che nel tempo si rivelarono peculiari e vincenti, e di cui la valorizzazione di Alessandria quale luogo d’alta rappresentanza era un segmento essenziale.
La protettrice presenza inglese non riuscirà realmente, come in India, a prevalere su una molteplicità di apporti preesistenti che certo erano francesi, italiani, greci, ebraici, arabi, ma non inglesi. La lingua dominante per la politica e la diplomazia rimaneva quella di Molière, le conversazioni a qualsiasi livello erano sovente un pittoresco mosaico d’idiomi. La ricchezza, la mondanità, l’offerta di teatri, circoli, feste, il dibattito letterario assai vivo, le prestigiose scuole d’ogni livello, la quantità di giornali e riviste, facevano sì che Alessandria e gli alessandrini si ritenessero un profumato, esclusivo jardin clos. Che tra le due guerre mondiali toccò il suo maggior acme.
Da giugno a ottobre la corte, i ministeri e le legazioni straniere dal Cairo si trasferivano al completo ad Alessandria per fuggire il caldo soffocante della capitale. Il palazzo di Ra’s al-Tin era stato trasformato in reggia estiva dall’italiano Ernesto Verrucci e Fuad vi riceveva assai sovente. Si parlerà molto, negli anni successivi, anche del secondo palazzo fatto restaurare da Fuad a Verrucci, quello di Montazah, in un immaginifico stile neorinascimentale; e del nuovo lungomare, la corniche sorta al suo seguito, con gli stabilimenti e i ristoranti più alla moda della città. La high society, fosse legata alla casa regnante o al capitale o alla politica o alla diplomazia, si muoveva tra le spettacolari ville non lontane dalle due regge, gli yachts ormeggiati al porto o al British Boat Club a Ras el Tin e i grandi circoli, come l’Alexandria Sporting Club a Ibraimieh, il Cercle Français in rue Nabi Daniel 50, il Cercle Mohammed Alì (le sue terrazze erano il salotto buono degli affari), il Cercle Hellenique e il Circolo Italiano, tutti in rue Fuad I (già rue de la Porte de Rosette).
I due circoli Maccabi (junior e senior) raggruppavano sì parte dell’ampia comunità ebraica locale, ma i suoi maggiorenti (tra cui molti d’origine italiana, come i Prato, i Coen, i Viterbo) frequentavano liberamente lo Sporting o il Mohammed Alì. Così come la colonia inglese era solo in parte attratta dal British Book Club di rue Adib, formando di necessità un nucleo importante (vicepresidente e cariche direttive) dello Sporting.
Era pur vivissima la realtà culturale d’Alessandria, ove l’apporto italiano era stato ed era in più casi fondante. Il piccolo e raffinato Teatro Zizinia era un progetto ottocentesco di Pietro Avoscani ispirato alla Scala di Milano; il grande Teatro Alhambra era in proprietà a Bettino Conegliano e le stagioni d’opera che in entrambi si svolgevano venivano sempre affidate ad impresari italiani. L’organizzazione concertistica e l’istruzione musicale avevano i loro punti di riferimento in Enrico Terni ed Ettore Cordone. Terni era un agente di cambio, ma anche un compositore di qualche ambizione: sposata a Trieste nel 1921 la scrittrice Fausta Cialente, si era trasferito con lei ad Alessandria, interessandosi presto di organizzar concerti da camera, quasi tutti all’Alhambra. Divenne presto un punto d’incontro d’una certa intellighentsia forse antifascista, forse in odor di massoneria, forse solo indipendente. Cordone era per contro un musicista già assai affermato in Italia: organista della regina Margherita, amico di Mascagni, direttore della Cappella dell’Accademia di Santa Cecilia, proprio nel 1923 era stato chiamato da Fuad I a fondare una scuola musicale ad Alessandria. Ed era così nato il Liceo Musicale Giuseppe Verdi, che nel 1934 avrà duecento alunni e dieci professori, con un pubblico tutto legato all’alta borghesia italiana, ebraica e greca.
Alessandria di notte splendeva come di giorno. Dalle terrazze e dalle verande d’alberghi e cafés, dai lampioni che ritmavano i lunghissimi filari di palme perfettamente allineati, dalle vetrate di palazzi residenziali e pubblici, dalle grandi automobili d’ogni nazione in continuo movimento, centinaia di luci rendevano quel lungomare uno scenario fantasmagorico di mobilissima, affollata eleganza. Non diverso dagli Champs-Elysées di Parigi o dalla Promenade des Anglais di Nizza o dall’Avenue d’Ostende di Monte Carlo, se non per l’incelabile malia d’un Oriente sì cosmopolita al massimo segno, ma pur sempre latore d’una dimensione locale charmeuse et redoutable à la fois.
Tuttavia Rue Nabi Daniel faceva storia a sé: la si diceva asse portante dell’antica città voluta dal Macedone e ch’egli stesso vi fosse sepolto. Si diceva che sotto la Masjia al-Naby Danyal giacessero le spoglie del profeta Daniele (invece solo un pio sheikh d’epoca assai più trada). E v’erano serenamente contigue anche la maestosa sinagoga Eliahu Hanayi e la cattedrale copta di San Marco. E diversi uffici del Consolato francese nonché l’Ufficio informazioni britannico. Bastava poi allontanarsene di poco, per trovare non solo quei cennati salotti buoni della finanza alessandrina, ma anche una nutrita e nutriente serie di cafés e patîsseries le cui profferte non erano solo nelle tazzine di una forse impareggiabile mocca turchesca, né nella profusione opima di revani, umm alì, baklava e sambousek, ma in un’accoglienza discreta ed affabile che toccava certo il suo vertice nel leggendario Café Pastroudis, dalle caratteristiche scritte in caratteri dorati di morbida curvatura déco.
Sappiamo che tutto questo non esiste più da tempo. Sappiamo che i luoghi di quell’incantevole douceur de vivre sono ora stretti nel pugno ferreo di sistemi di potere d’atroce, crudelissimo talora, diniego d’ogni pluralismo di cultura, di pensiero, d’azione, di credo. Al nome d’equilibri di forze politiche e di irrinunciabili reti d’affari. Ugo Foscolo chiedeva che almeno la memoria ci fosse consentita. Lo chiediamo anche noi.