Gentile direttore,
c’era bisogno di quest’intervista di papa Francesco a Canale 5.
Già da tempo si era superato il livello di saturazione dell’informazione in periodo Covid e le conferenze stampa non risollevavano certamente il livello politico del nostro paese.
Ma non solo questo.
Mi sembra che l’accoglienza sia stata gradita e quasi entusiasta, non solo nei commenti degli opinion leader, ma anche da parte della gente comune e che questo indichi l’esigenza di una “parola” vera e significativa, comprensibile e verificabile nel quotidiano delle nostre giornate e soprattutto di speranza.
Infatti, le promesse e gli slogan che ci hanno accompagnato (per non dire bombardati) lungo tutti questi mesi di pandemia sinceramente ci hanno sfinito.
A tanti, credo, sia capitato in situazioni di dolore, sacrificio e comunque di incertezza esistenziale sul futuro, sentire fastidiose le ricette miracolose e le istruzioni per l’uso che, anche in buona fede, ci vengono suggerite dal conoscente o dal collega di turno.
Cerchiamo e desideriamo in quei momenti piuttosto un volto, uno sguardo amico, una mano che ci sorregga, una parola che non avremmo saputo dire, una assonanza se non una condivisione…
Ecco, quasi in punta di piedi, con discrezione e semplicità, domenica sera quelle “parole” ci sono state dette.
Appunto, come si dicono ad un amico cui si vuole bene, il suo bene. Allora non si tralascia nulla della drammaticità, accogliendolo, abbracciando tutto di lui, anche il limite o il peccato.
Trattengo particolarmente due “cose” di quelle parole.
Innanzitutto, il realismo. Fin dai primi minuti dell’intervista l’invito a non chiudere gli occhi (“da una crisi mai si esce come prima, mai. Usciamo migliori o usciamo peggiori”), a guardare tutti gli aspetti della realtà (“prendiamone solamente due: i bambini e la guerra”), a rivedere tutto il nostro vivere (“uscirne dalla crisi sulle cose concrete, niente fantasia”) e la risposta quasi inaspettata: “come si esce migliori? Si deve fare una revisione di tutto, ci vuole realismo.”
Dall’altra la concretezza. Quella concretezza che parlando di fraternità, unità, pace, vita e morte, parla di farsi vicino all’altro, parla dell’indifferenza e menefreghismo che ci allontana, che ci mette davanti quell’immagine così concreta della povera mendicante e lo sguardo nostro (nostro, mio, tuo, non solo di quella signora fotografata) indifferente e rivolto dall’altra parte.
No, non ha introdotto solo valori astrattamente veri, ma li ha calati concretamente dentro le nostre vite, ce li ha fatti toccare con mano o almeno percepire nella nostalgia di averli dimenticati.
Non giudice o moralizzatore, ma compagno, amico di cammino che conosce e condivide la fatica del vivere, soffre con me, come me, e ci suggerisce ciò per cui vale la pena vivere e impegnarsi.
D’altronde tutto è iniziato così, non da discorsi o piani pastorali, ma dall’incontro con quello sguardo commosso di Uno all’altro.