“Il complotto contro l’America” (The Plot Against America) è un romanzo dello scrittore americano Philip Roth, sceneggiato in tv nell’omonima serie trasmessa su Sky Atlantic. Il protagonista Charles A. Lindbergh sconfigge Franklin Roosevelt e vince le elezioni presidenziali del 1940. La fiction, sei episodi disponibili in demand sulla piattaforma Sky, ne racconta l’ascesa fino alla vigilia delle votazioni con esiti imprevedibili e colpi di scena. In uno scenario fantapolitico, il presidente antisemita Lindbergh impasta l’America di nazismo, conducendola a un passo dal baratro. Gli ebrei americani sono in pericolo, vittime dell’odio improvviso della Polizia e dell’esercito. Un modo per l’autore di raccontare gli anni Quaranta, quando gli ebrei americani temerono il peggio nella terra dell’abbondanza e della prosperità.
Nella realtà storica, fu il repubblicano Wendell Willkie l’avversario politico di Roosevelt. Nonostante le differenze, i due promossero la libertà, i diritti e la democrazia negli Stati Uniti e nel mondo. La letteratura precede l’attualità. Durante la presidenza Trump esplode il populismo, una bestia alimentata dal divario sociale tra l’élite ricca e il proletariato, dal razzismo tra bianchi ed etnie minoritarie. La religione non è rimasta esente da questa lotta, con monsignori pronti a santificare le politiche trumpiane e a gettare fango sul magistero del Papa, i cosiddetti “tradizionalisti” numerosi anche in Italia e in quella fetta di clero che mal sopporta Papa Francesco.
La democrazia liberale è il tratto distintivo del popolo statunitense, un antidoto ai regimi dittatoriali, il siero che immunizzò l’intero occidente dagli “ismi” (comunismo, fascismo e nazismo) anche grazie a canzoni che hanno alimentato un sogno, quello americano, non privo di contraddizioni. La nazione che guardavamo con ammirazione è diventata inesorabilmente una terra da cui guardarsi perché una porzione di popolo si mostra intollerante con i più deboli (lo sapevamo già) e capace di un colpo di stato. Gli U2 in “American Soul” descrivono gli Stati Uniti come un suono: «Non è un luogo / Questa nazione per me è un pensiero / Che offre grazia / Per coloro che cercano accoglienza», mentre per i R.E.M. di “Ignoreland” è la terra degli ignoranti: «Questi bastardi hanno preso il loro potere dalle vittime degli anni “USA contro il resto del mondo” / Rovinando tutto ciò che era giusto e vero / La spinta social democratica è finita giù negli abissi…».
Gente armata fino ai denti e travestita da sciamano che spaventa la democrazia, lo cantava David Bowie in “I’m Afraid of Americans”. Temeva l’individualismo, il potere distruttivo della parola e il senso d’onnipotenza degli americani: «Nessuno ha bisogno di nessuno / Non fanno neanche finta / Sì, ho paura degli Americani / Ho paura delle parole / Temo di non poterci far niente / Dio è in America.» L’assalto al Campidoglio ha superato la fantasia hollywoodiana. Scene al limite del grottesco, se non fosse per i cinque morti causati da quell’attacco. Facinorosi neonazisti e dilettanti allo sbaraglio fomentati dal delirio di un Presidente incapace di riconoscere la sconfitta.
Il mondo ha visto il video in cui la canzone “Gloria”, celebre cover di Umberto Tozzi, intratteneva il Presidente prima di parlare ai suoi elettori. Più tardi istigherà gli stessi all’insurrezione, comanderà di andare al Campidoglio, telefonerà ai deputati repubblicani perché non venisse ratificata l’elezione di Biden. Quella canzone ha accompagnato i comizi pubblici di Trump durante la campagna elettorale, diventando il suo inno personale. Assoggettata all’uomo più potente al mondo, “Gloria” è fermentata in oscenità. L’uomo più potente al mondo ha incitato le folle irradiando un brano pop pieno di doppi sensi e insulso. L’America è la patria del rock’n’roll, santi numi! La contrapposizione delle parti e una certa ottusità è sintetizzata in questa scelta di cattivo gusto.
I predecessori repubblicani, pur sbagliando a intendere le canzoni, sceglievano Springsteen (oggi la sua “Rainmaker” suona profetica) o John Mellencamp. Trump ha scelto Umberto Tozzi per bearsi del suo narcisismo, e l’autore, avendo preso le distanze dall’accaduto e non durante la campagna elettorale, dovrà rassegnarsi: la sua “Gloria” avrà il volto non di una donna ma di Trump.
Come se guardassimo una puntata di “Blob” in televisione, in quel video delirante potremmo sostituire “Gloria” con l’ultimo verso cantato da Leonard Cohen in “Democracy”: «Amo il paese ma non sopporto la scena / E non sono di destra né di sinistra e questa notte rimarrò a casa mia / A perdermi in quel piccolo schermo senza speranze / Ma io sono resistente come quei sacchi dell’immondizia che il Tempo non riesce a deperire / Sono roba vecchia ma alzo ancora questo piccolo mazzo di fiori: la democrazia sta arrivando negli USA.» Si potrebbe usare anche “Karma Police” dei Radiohead: «Arresta quest’uomo / Parla in matematico / Ronza come un frigorifero / È come una radio non sintonizzata.» Ne esalterebbe la drammaticità.
Mentre ottomila manifestanti invadevano il Campidoglio, guardavo le loro bandiere sventolare, curioso di leggere cosa c’era scritto, cosa quelle stoffe al vento palesassero. Ho faticato a capirne il senso e mentre le immagini scorrevano, pensavo a “Broken Flag” di Patti Smith e alla bandiera americana. A quella bandiera spezzata che volteggiava in un cielo arido, a quel rosso sangue simbolo dei valori di un popolo e del sacrificio, a quel velo luttuoso che copriva il campo di cinquanta stelle. Chiedevo soccorso a Bob Dylan mentre vedevo la democrazia circondata da lupi e una stanza piena d’uomini coi loro martelli sanguinanti. A Dylan e a Patti Smith penso quando guardo all’America, mentre Trump ricorda quella vanagloria che ha distrutto l’unità di un popolo, seminando divisioni e conflitti. A noi italiani, quando un deejay o un barista sordo ci costringeranno a farlo, non ci resta che ascoltare con imbarazzo: «Gloria / Manchi tu nell’aria / Per chi accende il giorno / E invece di dormire / Con la memoria torna / A un tuffo nei papaveri / In una terra libera…»