Curati della Fondazione della Sussidiarietà, tra ottobre e dicembre dello scorso anno, Il Sussidiario ha pubblicato sei interviste a giuristi esperti del diritto della previdenza sociale e un articolo del prof. Matteo Bonzini, medico del lavoro, tutte riguardanti temi d’attualità come: pensione “quota 100”, l’innalzamento dell’età pensionabile, la sua relazione con la salute, il conflitto intergenerazionale. Non è usuale che a parlare di questi temi siano dei giuristi, perché si pensa, a torto, che si tratti di problemi di prevalente rilievo finanziario, perciò riservati agli economisti o ai sociologi.
Provando a sintetizzare quanto emerso dalle interviste, la valutazione sulla pensione “quota 100” – provvedimento a carattere temporaneo entrato per ora nell’ultimo anno di vita – è in genere negativa almeno sotto tre profili. È innanzitutto fallito l’obiettivo di incentivare il ricambio generazionale: lo dicono i dati, peraltro a conferma di quanto pronosticato da molti dei primi commentatori. Con il lockdown, anzi, lo strumento rischia di cambiare pelle, diventando un ammortizzatore sociale atto a ridurre la disoccupazione, soprattutto per lavoratori economicamente e socialmente fragili.
Ciò non toglie, ma le opinioni al riguardo sono più articolate, che “quota 100” avvantaggi i lavoratori con carriere lavorative continue – anche se con un buon numero di anni in regime misto di calcolo della pensione – e neppure distingua tra questi in base a effettive condizioni di gravosità del lavoro. Il tutto a spese dei giovani, riproponendo il tema della sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale, in realtà aggirato dal Governo finanziando la misura con le entrate fiscali.
Si tratta, infine, di una delle tante ipotesi di pensionamento anticipato in deroga alla disciplina ordinaria della legge Fornero, la cui moltiplicazione accresce il tasso di diseguaglianza tra i lavoratori, ma non offre alcuna risposta organica e di lungo periodo al problema reale della mancanza di flessibilità dell’età pensionabile.
Su quest’ultimo problema, la comune critica allo stillicidio di ipotesi temporanee (ma con plurime proroghe) di pensionamento anticipato si accompagna a tre proposte di soluzione organica, in realtà tra loro complementari: il ritorno all’impianto originario della legge Dini del 1995, ossia a un’età flessibile di pensionamento, peraltro aggiornata nel minimo e nel massimo (60-70 o 63-71 anni); un deciso ricorso a politiche di invecchiamento attivo che considerino l’anziano come risorsa e al contempo consentano il ricambio generazionale; da ultimo ed eventualmente, la conservazione di limitate ipotesi di pensionamento anticipato calibrate su categorie specifiche di persone, particolarmente bisognose.
Oltre “quota 100”, la rigidità della legge Fornero, riconosciuta da tutti, non sta tanto nel meccanismo dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile, quanto nella sua generalizzazione. Questa, infatti, presuppone un’equazione tra aumento della speranza di vita e longevità (o permanenza di una condizione di buona salute), smentita dalla realtà, come ben evidenzia l’articolo del prof. Matteo Bonzini. Inoltre, l’adeguamento automatico alla speranza di vita, di per sé legittimo, finisce per non esserlo più, o almeno rischia di finire così, nel momento in cui risponde unicamente a un criterio di sostenibilità finanziaria. Il problema della sostenibilità, tuttavia, non è risolvibile operando solo internamente al sistema previdenziale, richiedendo la sviluppo di politiche per accrescere l’occupazione stabile e di politiche per la famiglia che favoriscano anche la ripresa del tasso di natalità.
Un panorama più articolato presentano le risposte sul conflitto generazionale, non tanto perché qualcuno ne neghi l’esistenza quanto perché se ne evidenziano molteplici profili. Così, la legittimità di interventi come la contribuzione di solidarietà o i tetti pensionistici è da qualcuno fondata su un dovere giuridico delle generazioni attuali verso le future in base al principio solidaristico contenuto sull’art. 2 Cost. Secondo altri, il sistema di calcolo contributivo escluderebbe quel conflitto, introdotto tuttavia dalla disciplina transitoria della legge n. 335 del 1995, mentre un’interessante prospettiva sposta l’attenzione sul profilo fiscale, rilevando che i futuri lavoratori o chi ha redditi da lavoro modesti beneficia della solidarietà finanziata anche da lavoratori con redditi non particolarmente elevati.
Con un range di valutazioni che va dal poco rilevante all’inutile, all’artificioso la distinzione tra previdenza e assistenza è un falso problema e, in senso giuridico, perfino inesistente, perché le forme di finanziamento della previdenza non sono stabilite in modo vincolante dalla Costituzione (art. 38, comma 4), ma lasciate alle scelte discrezionali del legislatore ordinario, per cui di principio non è impedita una totale fiscalizzazione.
La sostanziale coralità riscontrata nelle opzioni di fondo delle risposte è tanto più significativa per la diversità di storie accademiche e culturali degli intervistati. L’osservazione non è una nota di colore, perché evidenzia l’esistenza di problemi oggettivi e la necessità di soluzioni organiche. L’intervento più lineare e semplice è il ritorno all’origine della l. n. 335 del 1995, cioè alla flessibilità dell’età di pensionamento tra un minimo e un massimo, ovviamente aggiornati. Una soluzione che garantisce certezza e uguaglianza, senza creare sacche di privilegio e aspettative assistenziali di chi resta fuori. Perché questa è la dinamica perversa che producono i tanti piccoli interventi settoriali: creato il privilegio temporaneo se ne allargano i confini temporali e soggettivi, perché non è giusto che per un giorno, una settimana, un mese uno sia dentro e l’altro fuori. E ogni anno si ricomincia.
Stride, in confronto, la pochezza dei contenuti in materia della Legge di bilancio. Nulla più che l’ennesima proroga di alcune forme temporanee di pensionamento anticipato (Opzione donna, Ape sociale, isopensione).