Uno studio dell’Alta scuola di economia e management dei Sistemi sanitari dell’Università Cattolica (Altems) ha rilevato le differenze salienti fra la prima e la seconda ondata (con una durata, stabilita convenzionalmente, di 109 giorni per ognuna: 24 febbraio-11 giugno la prima, 14 settembre-31 dicembre la seconda). Ne abbiamo parlato con Americo Cicchetti, direttore Altems, che mette in evidenza come due siano le differenze macroscopiche. In primo luogo, il numero di pazienti gestiti a domicilio, decisamente più alto nella seconda ondata; in secondo luogo, il numero di positivi rilevati, anche questo molto più alto nella seconda ondata, a fronte però di un maggior numero di tamponi effettuati. Da ridimensionare, tuttavia, il criterio spesso adottato dalla vulgata corrente, che paragona le cifre delle due ondate con riferimento al numero dei positivi sui tamponi effettuati. Il conteggio infatti, mette in guardia il professor Cicchetti, non distingue fra tamponi di screening e tamponi confermativi, quelli effettuati cioè più volte sulla stessa persona.
Professore, qual è in base al vostro studio la differenza più macroscopica fra le due ondate?
La differenza sta sicuramente nella quantità di persone che sono state gestite a domicilio nelle due ondate. Mentre, dal punto di vista di organizzazione del sistema, nella prima ondata la parte più sotto stress è stata l’ospedale, nella seconda ondata la quantità di persone con sintomi curata a domicilio è stata enormemente superiore.
E questo a quali considerazioni conduce?
Questo vuol dire che nella seconda ondata sono stati molto più stressati i sistemi territoriali rispetto a quelli ospedalieri, perché i pazienti della prima ondata sono stati mediamente più gravi, molti positivi allora non li trovavamo nemmeno. Nella seconda ondata, grazie ai tamponi, abbiamo trovato un numero molto più alto di positivi, che abbiamo curato in gran parte a casa. Questa è la differenza cruciale.
Quali elementi emergono a livello di gestione sanitaria?
L’elemento critico è questo: nella prima ondata la gestione è stata eterogenea, diversa in ogni regione. Regioni come Veneto, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna hanno puntato da subito sulle strutture territoriali perché erano molto più organizzate rispetto a Lombardia, Piemonte, Liguria, che avevano una parte territoriale meno strutturata, pur disponendo di sistemi ospedalieri più robusti.
E nella seconda?
Nella seconda ondata le regioni si sono comportate in modo più uniforme, in qualche modo sono corse ai ripari rispetto alla gestione territoriale, avendo capito che più i pazienti venivano tenuti lontani dagli ospedali meglio era. Molte persone, anche con sintomi mediamente gravi, sono state gestite a domicilio, nella prima ondata invece è arrivata in ospedale una quantità di persone con una gravità media anche più bassa, tant’è che il rapporto tra pazienti ricoverati in terapia intensiva e pazienti ospedalizzati nella prima ondata è stato superiore.
Quindi nella prima ondata c’erano meno persone in terapia intensiva in rapporto al numero di persone ospedalizzate?
Quando si arrivava in ospedale durante la prima ondata la probabilità di finire in terapia intensiva era mediamente più bassa, nella seconda ondata invece il paziente che arrivava in ospedale era mediamente più grave. Questo sempre perché nella seconda ondata c’è stata la capacità di gestire i malati a domicilio, si sono imparate delle cose, sono state emanate delle linee guida dal ministero della Salute per gestione domiciliare dei pazienti Covid.
Il dato assoluto dei contagi?
Questo sembra essere più alto nella seconda fase.
Ma il dato relativo (rispetto ai tamponi effettuati) invece cosa ci dice, se appunto nella prima ondata molti positivi non li abbiamo nemmeno trovati?
Infatti nella seconda ondata il numero di positivi sui tamponi effettuati è stato più basso, ma questo indicatore va utilizzato con le pinze, per diverse ragioni.
Quali?
La più importante è che non è stata fatta distinzione tra i tamponi di screening e quelli confermativi, fatti cioè a una persona già risultata positiva per vedere se si era negativizzata. Magari alla stessa persona faccio 3-4 tamponi e confluiscono tutti nel conteggio. Chiaro che la percentuale sui grandi numeri dice comunque qualcosa, però non è un buon modo per capire quant’è intensa la circolazione del virus. Molti media lo fanno, ma attenzione, non è questo l’indicatore giusto per misurare il fenomeno.
I posti in terapia intensiva sono aumentati nella seconda fase quando, come lei diceva, sono anche diminuite le ospedalizzazioni. Nel complesso il dato sulla saturazione media delle terapie intensive quindi cosa ci dice, che oggi la gestione è più efficiente?
La saturazione media complessiva è stata diversa fra la prima e la seconda ondata, ma nella prima ondata abbiamo avuto regioni in cui la saturazione è stata estremamente elevata, come la Lombardia. Mentre nella prima ondata tutto era concentrato in poche regioni, nella seconda ondata l’epidemia è stata distribuita in tante regioni. Se mediamente il livello di saturazione delle terapie intensive è stato più elevato nella seconda ondata, i picchi massimi li abbiamo avuti nella prima.
Perché?
Nella prima ondata la saturazione molto alta era legata al fatto che i posti erano pochi: 5.190 posti in terapia intensiva il 24 febbraio, per arrivare a 8.200 posti il 29 aprile, fra queste date c’è stato un periodo in mezzo in cui la saturazione è cresciuta enormemente perché il numero dei posti letto era molto basso. Poi le regioni li hanno implementati e la saturazione si è abbassata.
E nella seconda ondata che è successo?
Quando il contagio ha ripreso a correre, intorno alla metà di settembre, il numero dei posti letto in terapia intensiva non era a 8.200 ma era sceso a 6.300, perché nel frattempo tutti i posti di fortuna che erano stati creati (sale operatorie, reparti di sub-intensiva trasformati in terapie intensive) erano stati dismessi. Ci abbiamo messo un altro mese e mezzo a riportarli a 8.400, il 15 dicembre, superando quelli della prima fase. Nella seconda fase abbiamo avuto tassi di saturazione mediamente elevati in molte regioni per lunghi periodi, nella prima abbiamo avuto invece tassi di saturazione molto alti in poche regioni per brevi periodi, che sono stati drammatici. Questa è la differenza tra prima e seconda ondata.
Come diceva, le persone ospedalizzate nella seconda ondata sono mediamente più gravi, motivo per cui le terapie intensive sono ancora sature.
Esatto.
Un cambiamento macroscopico a tutti gli effetti non c’è, se non per quella grande massa di positivi che nella prima ondata non erano stati rilevati?
Sì, è così. Purtroppo il grande fallimento – un po’ di tutti, anche dei cittadini – è stato il tracciamento, che a un certo punto è saltato, un po’ perché i tamponi hanno ripreso ad accelerare solo dopo settembre, un po’ perché la gente non si è fidata, non ha scaricato l’app Immuni. Peraltro fra tutte le persone che conosco non ce n’è una che abbia ricevuto la segnalazione da Immuni di un potenziale rischio di contatto con un positivo.
Rispetto a letalità e mortalità cosa avete osservato?
La letalità nella seconda ondata è molto più bassa rispetto alla prima perché il denominatore – cioè il numero di infettati – è otto volte più grande. Però il numero di morti, cioè la mortalità, su 109 giorni, al 91° giorno della seconda ondata ha superato il numero di morti della prima allo stesso giorno.
Gli infettati sono stati comunque presumibilmente maggiori di quelli rilevati, nella prima ondata.
Questo è corretto, infatti forse sarebbe più opportuno parlare di letalità individuata, tanto che nello studio questo indicatore lo chiamiamo “letalità grezza apparente”.
La letalità del virus non sembra essere stata indebolita dalla migliore gestione territoriale né dal fatto di aver appreso come curare la malattia?
Sicuramente c’è stata una curva di apprendimento, purtroppo però questa è una cosa che non riusciamo a misurare.
Dai dati non è leggibile?
Esattamente, ci vorrà un po’. Servirebbe avere dati più precisi, ad esempio sulle comorbidità e le complicanze dei pazienti in ospedale, le condizioni al decesso. Quando i dati saranno disponibili potremo fare delle misurazioni per vedere quale sia stato l’effetto dell’abilità terapeutica, della competenza e della gestione dei malati tra la prima e la seconda fase.
La vostra retrospettiva servirà anche a dare indicazioni operative per il futuro?
Il nostro obiettivo è proprio quello di raccogliere dati in modo tale che parlino. Abbiamo fatto alcune considerazioni sui tipi d’intervento che serviranno per cambiare l’assetto del sistema sanitario, ma vogliamo farlo in maniera strutturata.
Come?
Siamo coinvolti in un progetto con otto Paesi a livello globale coordinato dalla London School of Economics di Londra. Il primo report dello studio per la parte italiana uscirà entro la fine del mese, andremo a dire quali sono le lezioni che dovremmo aver imparato da questa esperienza per poi confrontarci con gli altri Paesi.
Avete avviato un dialogo con le istituzioni e la politica?
Ci sono delle macroaree che hanno a che fare con la governance, il delivery system, la gestione della tecnologia, la gestione delle risorse umane e il finanziamento. Sono i cinque macro capitoli su cui andremo a dare dei suggerimenti. Abbiamo informato il ministro, l’Aifa e tutti gli altri soggetti che saranno i primi destinatari dello studio per avere i loro feedback prima della pubblicazione, è uno step che fa parte della metodologia che abbiamo concordato con gli altri Paesi coinvolti.
Dialogherete anche sul piano pandemico abbozzato dal governo?
Prima di fare un piano pandemico magari sarebbe stata opportuna una condivisione con le decine, centinaia di ricercatori che in tutta Italia e in tutta Europa in questi mesi hanno portato avanti degli studi. Sarebbe stato il caso di fare almeno una pubblicazione per avere dei riscontri, dei commenti, nel mondo scientifico è una cosa che si fa. Devo dire che è stata davvero un’occasione persa.
(Emanuela Giacca)