Il tornante della storia che stiamo percorrendo è a dir poco complesso. Il mondo ha la febbre, vive drammi, insicurezze e prospettive confuse. Insieme a una pandemia da cui non si vede ancora l’uscita, stiamo assistendo a cambiamenti epocali: il pianeta è sempre più connesso e globale, le innovazioni si succedono in modo rapido e radicale, i rapporti sociali, le comunità e persino il modo di pensare delle persone stanno subendo grandi trasformazioni.
Una rassegna di immagini vivide testimonia la presenza di profonde crepe, di inadeguatezze e obiettivi mancati in materia di sviluppo economico diffuso, di centralità del lavoro dignitoso, di autorevolezza e chiarezza nel ruolo delle istituzioni, di protezione sociale, di rispetto dell’ambiente.
Il mondo si vede costretto a fare i conti con una crisi dovuta non solo a un virus respiratorio, ma anche a quello prodotto dall’incapacità del modello di sviluppo neoliberista di risolvere i problemi che non affronta o che addirittura crea.
Nonostante il capitalismo sia il sistema che ha garantito il più alto livello di prosperità conosciuto dall’uomo moderno e, per un certo periodo – stimato tra il 1945 e il 1980 – sia anche riuscito a distribuirla in modo accettabile, da tempo, soprattutto per la sua deriva finanziaria, si è dimostrato insostenibile per uno sviluppo economico e sociale globale.
La crescita del liberismo finanziarizzato, favorita dalla rivoluzione tecnologica, a discapito dell’economia reale, ha contribuito ad aumentare le differenze sociali, mentre le politiche di austerity hanno eroso il potere d’acquisto dei ceti medi.
L’irrompere della pandemia ha accertato tali punti di debolezza e accelerato la necessità di correggere profondamente questo paradigma di sviluppo.
Ciò che crediamo sia venuto meno è proprio l’ossatura di una società: il libero ritrovarsi in ambiti in cui sostenersi reciprocamente ed elaborare idee, liberare energie, formulare risposte ai bisogni, in cui darsi il tempo di riflettere, di approfondire, di ascoltarsi.
Da almeno un paio di decenni, e non solo nel nostro Paese, le comunità intermedie sono in una situazione di profonda crisi che esprime, e nello stesso tempo aggrava, una più generale malattia dell’odierno scenario culturale e politico: la tendenza all’allentamento dei legami sociali, al disinteresse per la cosa pubblica, al diffondersi di una condizione umana sempre più fortemente segnata dalla solitudine, dallo smarrimento, dalla sfiducia.
Un’inversione di tendenza attesa da tempo perché, da tempo, è evidente il danno derivato dal venir meno dei corpi intermedi, avvenuto nella ricerca di un rapporto diretto, “disintermediato”, tra cittadini e istituzioni. Si era pensato che il superamento delle aggregazioni sociali rappresentasse libertà, modernità, emancipazione e invece ha prodotto macerie. Alla fine è rimasto isolamento e accantonamento degli ideali di solidarietà e responsabilità sociale.
Ha ragione Jeremy Rifkin quando afferma che “nessuna società è mai riuscita a creare prima un mercato o uno Stato e poi una comunità. È invece da una comunità forte e solidale che possono svilupparsi e funzionare Stato e mercato”. In questa elementare constatazione è descritto il valore della cultura sussidiaria.
“Sussidiarietà” è una parola sfortunata, perché dice il contrario di quello che significa.
Il termine proviene dal gergo dell’antica Roma e si riferisce alle truppe di supporto che dalle retrovie intervenivano a integrare i soldati in prima linea. Una realtà secondaria e supplementare, quindi, non il soggetto principale della vita pubblica, quale invece vuole indicare.
Sottolineare quanto sia importante recuperare il ruolo delle comunità intermedie in un assetto democratico non significa svilire il ruolo dello Stato. Una società che funzioni ha bisogno di un sistema di regole chiare e di un’amministrazione più forte, con compiti precisi, non più debole.
Ciò che una cultura sussidiaria combatte non è il potere statale, ma quella tentazione ricorrente nella storia che è il totalitarismo, l’invadenza indebita dello Stato nei confronti di persone e gruppi sociali.
Ciò che è più pregnante in una concezione sussidiaria è l’affermazione della dignità umana che si esprime anche nell’iniziativa concreta, nella partecipazione delle persone alla vita comune.
Non si può non concordare con Nadia Urbinati quando afferma che la sussidiarietà è molto più che una pratica sociale: è una concezione organica della società e del governo che corregge il paradigma bipolare singolo cittadino/Stato che ha sostenuto la cittadinanza democratica sin dalla rivoluzione francese, riducendo il ruolo del cittadino rispetto al potere solo al suo diritto di voto.
Uno sviluppo autenticamente sostenibile non può prescindere dal forte contributo della cultura sussidiaria e questo per la ragione che sostenibilità e sussidiarietà hanno a cuore la persona e i suoi bisogni.
E per costruire c’è, oggi più che mai, bisogno di comunità generatrici di cultura. Ciò che vogliamo esprimere è il valore di una cultura “in movimento”, che nasce da incontri e crea ipotesi di cambiamento.
L’irruzione sulla scena mondiale del Covid-19 rende più drammatico il bisogno di andare verso un nuovo tipo di globalizzazione, che si ponga obiettivi quali l’organizzazione di sistemi sanitari più solidi, universalistici, rassicuranti. Il che potrà avvenire solo nella reciproca stima e nel rispetto delle competenze tra politica e scienza, nella valorizzazione dell’impegno fattivo della società civile, nell’equilibrio virtuoso tra pubblico e privato. Ecco perché la partita sanitaria rappresenta un’opportunità storica e da non mancare per la cultura sussidiaria.
Cioè: un nuovo modo di pensare costruendo e di costruire pensando.