Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnnr) sembra dare occasione di teatrino politico, mancando ormai, a mio parere, quella capacità sintetica di vedere l’intero, di andare oltre le secche misure elettorali, tipica della politica vera. Per cominciare a lavorarci seriamente, vorrei ricordare un breve passaggio del discorso di Mario Draghi allo scorso Meeting di Rimini. A proposito del debito pubblico dei Paesi colpiti dalla crisi “di proporzioni bibliche”, destinato a crescere enormemente e a perdurare per finanziare la ripresa, l’ex Presidente della Bce nota: “Questo debito sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi. Ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca e altri impieghi. Se cioè sarà considerato debito buono. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo. I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi”.
La sostenibilità del debito – soprattutto da parte di Paesi già fortemente indebitati come il nostro – resta per ora garantita dalle politiche espansive delle banche centrali, che continuano a calmierare i tassi di interesse, ma contare soltanto su questo è decisamente miope: sarebbe come pretendere di aver recuperato una regolare respirazione senza mai staccare il polmone artificiale, per usare un’immagine purtroppo tristemente attuale. C’è, quindi, un gran bisogno di investimenti: gli investimenti netti pubblici sono calati drasticamente in tutta Europa: per restare in Italia, sono passati da un modesto 6-7% del Pil nel 1998 al -5% nel 2020 (sono entrati in area negativa dal 2012).
La percezione della qualità del debito va di pari passo con la percezione della qualità del capitale, che tanta tradizione ha ridotto alla sola dimensione economica, trascurando il capitale umano, sociale e naturale; diversamente, se cioè si considerasse soltanto il capitale economico dimenticando le altre forme, si avrebbe sì una ripresa, forse anche superiore ai livelli pre-Covid, ma di dubbia resilienza, non in grado di resistere a future scosse, ad esempio, di carattere climatico (il rischio clima viene misurato anche a livello finanziario e i futuri indici dovranno essere calcolati tenendo conto della transizione climatica).
Non si tratta solo di decidere la quantità di risorse da destinare ad ogni specifica missione del piano, ma anche, per quanto ovvio, di ragionare sulle modalità di attuazione, avendo presente che il programma dovrà essere strettamente organico e interdipendente tra i suoi vari capitoli. Sotto questo profilo, gli obiettivi di Agenda 2030, approvati dall’Onu nel 2015 per creare uno sviluppo sostenibile – ai quali, peraltro, il piano intenderebbe ispirarsi – mi sembrano un imprescindibile punto di partenza.
Se si destinano risorse a “Inclusione e coesione” non basta sottolineare che i giovani e le donne sono al centro dell’attenzione e indicare la cifra di 27 miliardi di euro. Non è la stessa cosa, ad esempio, decidere di incentivare l’occupazione giovanile, che potrebbe costituire uno stimolo economico più forte nell’immediato, oppure di costruire scuole accessibili a tutti per garantire istruzione di qualità, indispensabile investimento nel futuro capitale umano.
Parlare di inclusione significa focalizzarsi sul tema della povertà, in ogni sua forma, come un anno di didattica a distanza a dimostrato, distanziando larghe fasce di popolazione sul terreno educativo: sconfiggere la povertà è il primo obiettivo di Agenda 2030, con l’impegno, tra l’altro, di “assicurare che tutti gli uomini e le donne, in particolare i poveri e i vulnerabili, abbiano uguali diritti riguardo alle risorse economiche, così come l’accesso ai servizi di base, la proprietà e il controllo sulla terra e altre forme di proprietà, eredità, risorse naturali, adeguate nuove tecnologie e servizi finanziari, tra cui la microfinanza“; significa perseguire la riduzione delle diseguaglianze (obiettivo nr. 10, con l’impegno di “adottare politiche, in particolare fiscali, e politiche salariali e di protezione sociale, e raggiungere progressivamente una maggiore uguaglianza“). Per tacere l’importanza del Terzo settore e del volontariato, così incisivo nella ricostruzione del tessuto sociale.
In un mondo sempre più interconnesso, nel bene e nel male, guardare solo a generici capitoli di spesa rischia di suonare protezionistico, se non esplicitamente sul piano economico, sicuramente su quello antropologico e morale.
Per avviare il confronto credo che il metodo migliore per arrivare anche a numeri, proiezioni e precisione di dettaglio, sia – come suggerito di recente dal Papa – mettere tra parentesi “l’io” almeno per un po’ di tempo e in primo piano il “noi”.