Come ottimamente scritto ieri da Edoardo Laudisi nel suo articolo, scegliendo Armin Laschet come successore di Angela Merkel alla guida del partito, la Cdu ha deciso di non decidere. Immobilismo. Tattico, prima che politico. Ed economico, prima che ideologico. La frattura in seno al partito di maggioranza tedesco, infatti, è tutt’altro che sanata in vista della vera lotta, quella per la designazione alla Cancelleria prevista per settembre. L’ala destra, infatti, certamente non deporrà le armi delle proprie critiche verso la linea eccessivamente “europeista” e aperta all’indebitamento della Mutti in versione anti-pandemica e Presidente di turno dell’Unione. Ora, però, occorre sposare un gattopardismo molto italiano, più che il mero pragmatismo teutonico. E la ragione sta proprio tutta nei mesi che dividono il partito dalla scelta definitiva, assolutamente corrispondenti con quelli che dovrebbero svelare al mondo il grado di reale efficacia del vaccino come boost alla ripresa. Di fatto, la prova del nove a livello macro di ciò che le Borse stanno già prezzando da settimane, forse con un misto di ottimismo e irresponsabilità. Già, perché mai come ora, tout se tient.
Nella breve parte iniziale del mio articolo di ieri, indirettamente dedicata al teatro dell’assurdo che andrà in scena oggi alla Camera e domani al Senato, facevo infatti notare come un osservatore attento e di lungo corso delle questioni europee come Wolfgang Munchau avesse sottolineato le sempre crescenti tensioni in seno al board della Bce rispetto al programma di stimolo Pepp, distinguo emersi platealmente dalla pubblicazione delle minute del Consiglio dello scorso 9-10 dicembre. Insomma, terminata la moratoria coincisa con il semestre di presidenza Ue della Germania, la Bundesbank era pronta a tornare alla guida del fronte dei falchi – o frugali – e dare l’assalto all’eccesso di deroghe in seno al Qe.
Quanto emerso dall’assise della Cdu, però, mi ha parzialmente fatto tornare sui miei passi, coadiuvato in questa riflessione da alcuni dati ricevuti direttamente dalla Germania. Forse, la guerra aperta potrà attendere ancora qualche mese. Forse, fino all’estate la tregua potrebbe reggere. E, paradosso dei paradossi di un mondo finanziarizzato all’estremo dalla globalizzazione dei capitali, il discrimine sul timing di questo supplemento di pace forzata sarà scadenziato altrove. Oltreoceano, per l’esattezza, fra la sede della Fed e la Casa Bianca, quest’ultima già in versione tax’n’print’n’spend di Joe Biden.
Ma andiamo con ordine. A oggi e al netto del Pil 2020 sceso “solo” del 5% contro le attese del -5,2% – tanto da vedere Berlino in grado di tornare ai livelli di crescita pre-Covid entro la fine dell’anno e con almeno un semestre di anticipo sul dato complessivo dell’eurozona -, due sono le dinamiche che hanno garantito ad Angela Merkel una gestione relativamente tranquilla a livello interno delle criticità emerse, fra estenuanti lockdown ciclici e afflato eccessivamente filo-Club Med in chiave europea. E ce le mostrano questi due grafici, dai quali si desume come il livello di diseguaglianza sociale non abbia subito una drastica accelerazione come in altri Paesi membri, quantomeno se misurato attraverso il proxy della distribuzione di lavoro e profitti.
La quota di income nazionale derivante dal lavoro è infatti salita al massimo dagli anni Ottanta con il suo 73,4%, a fronte di profitti in calo e salari stabili. Ovviamente, il tutto omogeneizzato dall’enorme iniezione di capitale pubblico messo in campo per tamponare il fall-out macro della crisi. Ed ecco che il secondo grafico ci mostra come il totale dei depositi retail in Germania abbia appena toccato il suo record assoluto di 2,54 triliardi di euro, calcolando nel novero i 21 miliardi terminati nei conti a novembre 2020. Solo nei primi otto mesi dello scorso anno, i risparmiatori tedeschi hanno versato qualcosa come 128 miliardi di euro nel sistema bancario. Ovviamente, un dato bifronte. Sintomo di propensione al risparmio figlia della crisi che porta a non spendere, ma anche proxy positivo di un flusso di cassa costante nel portafogli dei cittadini.
Ora, però, attenzione a cosa potrebbe cambiare. Repentinamente. A fronte di quella messe di liquidità, gli istituti tedeschi stanno cominciando a caricare interessi penalizzanti sempre maggiori anche su conti correnti di bassa entità, come strumenti di ribilanciamento rispetto a quanto perso a causa dei tassi di depositi negativi imposti dalla Bce e arrivati ormai a uno status temporale che in molti vedono come semi-permanente. E se aumento delle aste Tltro e ampliamento del criterio di tiering sui depositi ha portato un certo sollievo, il sistema creditizio reclama un cambio di passo. E, nemmeno a dirlo, tutto questo suona come musica alle orecchie della Bundesbank. Ma non basta. Questo altro grafico mostra come, a oggi, il costo dell’energia elettrica in Germania sia il più alto al mondo, superiore persino a quello della iper-tassata Svezia o degli Stati Uniti: il cittadino tedesco paga infatti un kilowatt/ora circa 0,34 euro, il doppio di uno svedese e tre volte quanto sborsa uno statunitense. Di fatto, il prezzo da pagare alla transizione energetica imposta al sistema produttivo dal Governo Merkel e agli alti sussidi stanziati per l’auto elettrica, due componenti complementari della medesima politica green.
Scelta ovviamente strategica e destinata a pagare sul medio-lungo periodo, ma che nel breve è andata a scontrarsi contro una pandemia che nessuno si attendeva, di fatto creando un pericolo potenziale in caso la ripresa non dovesse sostanziarsi in tempi realmente brevi grazie al vaccino e il regime di supporto statale ai salari dovesse cominciare a risentirne, intaccando indirettamente il potere d’acquisto percepito e reale. In compenso, nel 2020 i titoli legati al comparto delle energie alternative hanno segnato in Borsa un rotondo +431%, secondi soli al +631% del trading legato alle criptovalute.
Perché sottolineo questo particolare? Semplice, perché proprio la Borsa rappresenta il Rubicone assoluto della situazione in cui è andata a incastonarsi la nomina in stile by-pass di Armin Laschet. Questi due grafici parlano da soli e mostrano come anche i solitamente cauti e conservatori investitori tedeschi si siano fatti travolgere dalla febbre del rally pandemico innescato lo scorso marzo dal ritorno in campo in grande stile delle Banche centrali. Con l’indice Dax a quota 14.000 punti per la prima volta in assoluto, la prima immagine mostra come nei soli primi 9 mesi del 2020, gli investitori tedeschi abbiano acquistato titoli azionari per un controvalore di 33 miliardi di euro, di fatto tramutando quello appena terminato nell’anno record con ampio margine e senza nemmeno conteggiare gli acquisti dell’ultimo trimestre (record nel record).
La seconda immagine mostra la medesima dinamica da un’altra prospettiva, ovvero l’aumento esponenziale delle valutazioni dei titoli di gestori di piattaforme di trading tedeschi come Lang&Schwarz e Tradegate. Nemmeno a dirlo, il primo impulso è partito a marzo e dopo mesi di stanca – comunque su livelli decisamente apprezzabili -, ecco che i tonfi di settembre e il conseguente, rinnovato impegno della Bce ha innescato la FOMO fever autunnale anche nei connazionali dell’integerrima frau Merkel.
Domanda da un milione di euro: può la Bundesbank scatenare una guerra in seno al board Bce contro le deroghe del Pepp o i tassi di deposito negativi proprio ora, rischiando di innescare una reazione negativa del mercato azionario che travolgerebbe qualche centinaia di migliaia di piccoli investitori tedeschi, già fiaccati dai lockdown e pronti a riversare il loro malcontento contro il Governo? Difficile. Molto difficile. Ed ecco, quindi, il segale arrivato dal partito-cardine dell’esecutivo: caricate pure i fucili alla sede della Buba. ma teneteli ancora per un po’ chiusi nell’arsenale. La vittoria del candidato della destra interna, dichiaratamente schierato sulle posizioni rigoriste di Jens Weidmann in tema economico-monetario, avrebbe di fatto inviato un segnale terribile alla Bce, soprattutto alla luce delle divisioni già presenti – ancorché ancora sotterranee e latenti – denunciate dal tweet di Wolfgang Munchau (anch’esso tedesco) e dalle minute dell’ultimo board.
Davvero è andata così? Lo scopriremo presto. Anzi, prestissimo. Perché se giovedì Christine Lagarde si presenterà in conferenza stampa con il viso meno tirato e pronta ad andare oltre alle solite, generiche promesse di implementazione e ricalibrazione del piano di acquisti, significa che Angela Merkel avrà compiuto l’ennesimo, ancorché ultimo miracolo di mediazione. Il rischio? La variabile Fed, appunto. Perché se Jerome Powell invierà segnali di cedimento rispetto ai rischi inflazionistici, spavantando un mercato già guardingo rispetto ai riflessi si politica monetaria delle scelte votate al deficit dell’amministrazione Biden, allora l’ondata di shock ci metterà pochi nanosecondi ad attraversare l’Atlantico e riverberarsi sull’EuroStoxx e sugli indici nazionali dell’eurozona. A quel punto, attaccare la Bce e i Paesi del Club Med, indicandoli come responsabili del quadro di azzardo in cui si è innescata la nuova crisi, potrebbe divenire un utile diversivo di politica interna tedesca. Soprattutto per la Cdu. E il mite e quasi anonimo Armin Lascher potrebbe presto tramutarsi in un nuovo Wolfgang Schaeuble, quasi in una riedizione di Dottor Jekyll e Mister Hyde.
Da qui all’estate, rischia di cambiare tutto. L’Italia è avvertita: occorre inviare segnali chiari adesso, immediatamente, finché giocoforza la tregua europea resterà in vigore. Altrimenti, a settembre vedremo i draghi. Magari con la lettera maiuscola.