Il neoeletto Joe Biden si è appena insediato alla Casa Bianca e ha già lasciato un segno. Il 15 gennaio il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha firmato il decreto con cui ha indetto elezioni parlamentari e presidenziali a rispettivamente 15 e 16 anni dall’ultima volta in cui i palestinesi sono stati chiamati alle urne.
“Il presidente – si legge nel decreto – ha dato disposizioni alla commissione elettorale e a tutti gli apparati di stato di lanciare un processo elettorale democratico in tutte le città della patria”. Questo processo dunque, almeno secondo le intenzioni di Abbas, dovrebbe avere luogo in tutti e tre i governatorati della Palestina: oltre alla Cisgiordania, dunque, anche la striscia di Gaza, amministrata dai rivali di Hamas, e Gerusalemme Est con il suo status controverso.
Per la precisione saranno tre le tornate elettorali previste dal decreto: si comincerà con le elezioni legislative il 22 maggio, cui seguiranno le presidenziali fissate il 31 luglio per poi concludere il 31 agosto con il voto per il Consiglio Nazionale Palestinese (l’entità che rappresenta il popolo palestinese in patria e all’estero).
La mossa di Abbas è stata diffusamente interpretata come un segnale di disponibilità nei confronti del neoeletto Biden e della sua squadra. Come ha sottolineato l’analista Hani Habib, “è come se i palestinesi stessero dicendo all’amministrazione entrante: siamo pronti ad essere coinvolti”. In particolare il rinnovo delle cariche elettive dopo così tanto tempo serve ad Abbas per riguadagnare quella legittimazione agli occhi della comunità internazionale che si era progressivamente indebolita negli anni.
Se queste sono le intenzioni dell’85enne leader palestinese, la strada è purtroppo tutta in salita. Su quelle scadenze elettorali gravano infatti tutta una serie di incognite che potrebbero far deragliare o persino bloccare l’intero processo.
L’incognita numero uno si chiama Hamas, il movimento islamista guidato da Ismail Haniyeh che amministra Gaza da quando, quindici anni fa, combatté una furiosa guerra civile con la fazione guidata da Abbas, Fatah, riuscendo ad espellerla da quel territorio che da allora è diventato un santuario indipendente dove la formazione di Haniyeh fa il bello e il cattivo tempo. Quella guerra civile era esplosa dopo che nei territori palestinesi si erano tenute le ultime elezioni parlamentari vinte da Hamas. Da allora i due principali movimenti politici del Paese si fronteggiano senza esclusione di colpi contendendosi la guida dell’intera Palestina. Ma per i cittadini di Gaza la divisione dei destini all’interno della comunità palestinese si trasformò in un incubo rappresentato dalla volontà di Israele di cingere ermeticamente i terroristi di Hamas entro la loro enclave.
Questa volta tuttavia le elezioni si convocano sotto auspici migliori: Hamas ha infatti condiviso questa scelta e ha salutato con favore i prossimi appuntamenti alle urne nell’aspettativa che, come riporta il Guardian, “l’elettorato possa esprimere il proprio volere senza restrizioni né pressioni”. Questo clima positivo potrebbe creare le premesse per superare lo scetticismo di Ghassan Khatib, politologo della Birzeit University, che, conversando con il New York Times, si è chiesto come sia possibile “condurre una elezione quando il sistema politico è diviso completamente in due sistemi elettorali separati, due sistemi giudiziari, due apparati di sicurezza”.
Hamas e Fatah sembrerebbero tuttavia avere la volontà politica di superare questi ostacoli: a breve, come riferisce il quotidiano The Times of Israel, funzionari di entrambe le fazioni dovrebbero recarsi al Cairo, che gioca tradizionalmente un ruolo di mediazione tra le due parti, per concordare la road map negoziale. Sarà dunque in quella sede che verranno discussi aspetti delicati tra cui l’utilizzo dei rispettivi apparati di sicurezza per monitorare la regolarità del processo elettorale.
Ma anche se il negoziato tra Fatah e Hamas dovesse andare nella direzione giusta, sulle elezioni graverebbe un’altra ancor più temibile incognita: la probabile vittoria di Hamas, pronosticata da un sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research. Secondo l’Istituto, Fatah prevarrebbe alle legislative, mentre alle presidenziali in caso di scontro tra i due attuali leader la spunterebbe Haniyeh con il 50% rispetto al 43% dell’antagonista. Se questo scenario si dovesse tradurre in pratica, l’intera operazione escogitata da Abbas sarebbe vanificata alla luce delle sicure reazioni negative della comunità internazionale e degli Usa in particolare, che considerano Hamas solo un gruppo terroristico che si ripropone di distruggere Israele.
Ed è proprio Israele a rappresentare un’ulteriore incognita, potendosi mettersi di traverso già prima delle elezioni negando ai palestinesi residenti a Gerusalemme Est, considerata parte integrante della propria capitale, il diritto di partecipare al voto. Se così fosse, sarebbe molto probabile che Abbas cancelli l’intera tornata elettorale.
Ma quand’anche le elezioni si celebrassero, il ruolo di Israele risulterebbe determinante ancora una volta in negativo in caso di vittoria di Hamas. Difficilmente infatti si può immaginare una collaborazione tra nemici giurati che hanno combattuto tre guerre negli ultimi dieci anni, né sarebbero possibili accordi per la gestione condivisa della sicurezza nella Cisgiordania, del tipo di quelli attualmente garantiti da Fatah.
Se davvero le elezioni dovessero premiare Hamas, si prospetterebbero anni difficili per la convivenza in Medio Oriente, ma soprattutto verrebbe meno la possibilità di collaborare con gli Usa di Biden nella ripresa del processo di pace. Sarebbe inoltre dissipato il prezioso capitale politico apportato dalle Paci di Abramo, siglate da Israele con quattro Paesi arabi sotto l’egida dell’amministrazione Trump.
Ancora una volta i palestinesi sono alle prese con una scommessa da cui dipenderà buona parte del loro futuro.