“Ad oggi la sindrome respiratoria acuta da coronavirus 2 (Sars-CoV-2) ha infettato 78 milioni di persone ed è stata responsabile di più di 1,7 milioni di morti in tutto il mondo”. Esordisce così l’articolo uscito il 18 gennaio 2021 su Nature con i risultati di uno studio condotto dal gruppo di ricerca di Michel Nussenzweig, della Rockefeller University di New York. Lo studio, condotto su 87 soggetti risultati in precedenza positivi al coronavirus, dimostra che la protezione cellulare data dalle cellule B del nostro sistema immunitario può durare almeno sei mesi. Le cellule B sono cellule-memoria presenti appunto nel nostro sistema immunitario, che “registrano” l’incontro col virus e che entrando nuovamente in contatto con esso sono in grado di stimolare una nuova risposta immunitaria.
Non solo, lo studio ha mostrato che questa risposta è più rapida ed efficace della reazione anticorpale originaria e che si mostra anche più resistente nel fronteggiare le possibili mutazioni del virus. In questa intervista Paolo Gasparini, ordinario di Genetica all’Università di Trieste, chiarisce e commenta i risultati del lavoro appena uscito su Nature, raccordandoli a quelli dello studio già condotto dalla sua università su immunità cellulare e immunità anticorpale.
Professore, lo studio uscito su Nature di quanto sposta la nostra conoscenza sul tema?
Questo studio conferma quello che molti di noi avevano sempre non solo ipotizzato ma creduto realistico perché, come avviene per molte altre virosi, è naturale che si sviluppi un certo grado di immunità. Il problema però è sempre lo stesso: quanto dura questa immunità? Lo studio, anche se è stato condotto su un numero relativamente ristretto di soggetti, evidenzia in tal senso un primo dato importante.
Quale?
Per il tempo disponibile – stiamo comunque parlando di una malattia nuova i cui dati sono limitati nel tempo – si dimostra che effettivamente esiste una immunità dovuta alle cellule memoria che dura nel tempo, circa sei mesi. La durata di sei mesi è dettata anche dal fatto che ad oggi i tempi disponibili sono stati questi. Solo il monitoraggio continuo e costante di queste persone nel tempo ci dirà quanto ancora l’immunità può durare. Tutto questo naturalmente ha una ricaduta importante, perché coinvolge anche le strategie eventuali di vaccinazione della popolazione o comunque di gestione e prevenzione della patologia.
Secondo lei sarà fra i fattori che determineranno la precedenza di alcuni soggetti su altri nel piano vaccinale?
La stessa Organizzazione mondiale della sanità, ma poi anche le agenzie regolatorie, come Ema e Aifa, non escludono e danno controindicazioni alla vaccinazione di persone che abbiano già avuto il Covid. È il buon senso che ci dice che nel momento in cui mancheranno le dosi, o comunque le dosi non saranno disponibili per tutti, bisognerà fare un elenco di priorità. È chiaro che chi ha avuto la malattia due, tre, quattro mesi fa gode sicuramente di qualche grado di protezione, soprattutto se ha avuto una forma abbastanza franca della malattia stessa e quindi ha sviluppato una risposta anticorpale. Sarà a giugno, luglio, agosto che dovremo decidere se le persone che hanno avuto la malattia di recente andranno inserite nel piano vaccinale o se non sarà il caso di verificare, come hanno fatto appunto i ricercatori della Rockefeller University, la durata dell’immunità naturale.
Nello studio da voi condotto all’Università di Trieste avevate già posto attenzione sull’immunità cellulare.
Quando abbiamo fatto quel lavoro abbiamo rilevato che tra marzo e luglio c’era stato un decadimento significativo degli anticorpi in chi aveva contratto l’infezione. Gli anticorpi però non misurano l’immunità-memoria, che è più durevole. Ora, mentre gli anticorpi, anche se non decadono del tutto, dopo 3-5 mesi scendono in maniera significativa, le cellule memoria sono cellule che intervengono nella risposta ad agenti patogeni, cellule che hanno in sé la memoria del virus e che, se entrano nuovamente in contatto col virus, lo riconoscono e ripartono subito a produrre anticorpi, anche dopo mesi.
Si attivano anche per altri tipi di virus?
Certamente, ci sono altri virus e altre patologie virali in cui si sviluppa un’immunità di tipo cellulare. D’altronde questo è il principio su cui si basano molte volte i vaccini stessi: avviene una vaccinazione, il soggetto sviluppa un’immunità, una memoria del virus, e quella memoria rimane nel tempo, proteggendo da futuri attacchi del virus stesso.
Chiaramente questo tipo d’immunità sfugge al test sierologico.
Il sierologico verifica solo la presenza di anticorpi circolanti e misura il titolo anticorpale, la quantificazione. Il meccanismo delle cellule B del sistema immunitario, che ricordano di essere entrate in contatto con l’agente patogeno e se lo ritrovano partono a sviluppare anticorpi e a ucciderlo, è un meccanismo che ha permesso agli uomini di superare tutta una serie di patologie e di immunizzarsi nel tempo, di sopravvivere agli agenti patogeni che nel corso dei secoli e dei millenni hanno afflitto gli esseri umani.
Dura di più la protezione naturale o quella vaccinale?
Credo che al momento nessuno sia in grado di dire se il vaccino duri di più o di meno e nemmeno di dire quant’è veramente la durata della copertura vaccinale. Non ci sono dati, non perché non siano stati raccolti, ma perché il tempo intercorso non è sufficiente a determinare questa durata. In genere i vaccini sono disegnati per dare una risposta antigenica, quindi anticorpale, molto più potente, ma non sempre è così.
Se non conosciamo quanto dura la protezione del vaccino, come potremo sapere quando vaccinarci di nuovo?
I centri che stanno dispiegando la campagna vaccinale sicuramente si stanno attrezzando per valutare nel tempo la risposta anticorpale e mi sembra difficile che non venga fatta una valutazione di questo tipo. Ad ogni modo dobbiamo navigare a vista e andare avanti con le ricerche. E lo studio di Nature è in questo senso un’acquisizione di conoscenze in più in una lotta a una patologia per la quale un anno fa non avevamo alcun tipo di conoscenza.
(Emanuela Giacca)