L’Italia “ha trascurato o peggio ignorato sino a quando era troppo tardi” di sviluppare le “otto capacità fondamentali per fronteggiare una pandemia” come sarebbe stata obbligata a fare dal Regolamento sanitario internazionale (Rsi) dell’Oms. Ritardi nell’aggiornamento del piano sottoscritto con l’Oms nel 2007 in vista dell’arrivo di una possibile pandemia e mancate risposte ai questionari inviati all’Italia dall’Oms stessa sarebbero all’origine dell’impreparazione mostrata dal nostro Paese nell’affrontare la pandemia nel momento del suo arrivo. È la conclusione a cui giunge l’esperto di piani pandemici ed ex generale dell’Esercito Pier Paolo Lunelli – che è stato autore dei protocolli per piani pandemici di diversi Paesi europei – in un dossier che sarà messo agli atti nell’indagine della Procura di Bergamo e nella causa civile dei familiari delle vittime contro Governo e Regione. Ne abbiamo parlato con Raffaele Antonelli Incalzi, direttore del reparto di Geriatria dell’Ospedale Policlinico universitario Campus Bio-Medico di Roma e presidente della Società italiana di gerontologia e geriatria.
Professore, come commenta le osservazioni contenute nel documento redatto da Lunelli?
C’è poco da dire, c’è una inadempienza protratta nel tempo che in realtà solo impropriamente viene riferita al mancato contrasto di una potenziale pandemia, perché quella dell’Oms è una raccomandazione di carattere generale per eventi sanitari nazionali e sovranazionali di carattere eccezionale, tra cui c’è la pandemia, ma possono anche essere eventi legati ad esempio a guerra chimica, a incidenti chimici, calamità, etc. Nell’insieme c’è un difetto di percezione dell’emergenza, e questo è in linea col modo di pensare dell’Italia, che vive sempre per il presente e non ha percezione di questi eventi maggiori, tant’è che negli ospedali non c’è la riserva funzionale, quel 10-15% di letti di riserva attivabili al bisogno che ci metterebbero al riparo – che ci avrebbero messo al riparo nel caso del Covid – da evenienze che richiedessero un maggiore impegno.
Vuol dire che si chiama piano pandemico ma non è solo un piano per le pandemie?
Si chiama piano pandemico impropriamente, perché non serve a contrastare solo una pandemia, serve a contrastare qualunque evenienza, tra cui appunto la pandemia, in grado di determinare un incremento acuto, in tempi quindi molto brevi, del fabbisogno assistenziale.
In particolare nel documento si fa riferimento ai ritardi di cui il nostro Paese si è reso colpevole nell’aggiornamento del piano e nella preparazione conseguente: nell’aggiornamento del personale, delle strutture e dei meccanismi di sorveglianza.
In realtà l’aggiornamento del piano presuppone un piano ma il piano neanche c’è: l’ultima elaborazione è del 2006 ma è assolutamente superata, la raccomandazione dell’Oms è del 2007, la scadenza per la produzione del piano sarebbe stata il 2012, le prime tracce di una coscienza della necessità di fare un piano le abbiamo nel 2020, quindi si tratta di un’assoluta inadempienza.
Ad esempio il primo corso di contact tracing è partito a ottobre 2020, quando era ormai troppo tardi. Dalla sua prospettiva sono iniziative che ci avrebbero preparato alla “prova” del Covid?
Non c’è solo il piano nelle raccomandazioni dell’Oms, e anzi, aggiungo che nel 2013 c’è stata non una raccomandazione ma una nota a carattere stringente, impositivo, del Parlamento europeo e anche di quella non si è tenuto conto. C’è un altro elemento, di tipo informativo, cioè l’obbligo per le nazioni di fornire annualmente un report sulla propria capacità di fronteggiare eventi maggiori, e questo indipendentemente dalla stesura del piano. E anche lì, per 5 anni siamo stati inadempienti, non abbiamo fatto neanche l’esame di coscienza di fine anno che ci veniva richiesto. Questo dà l’idea della straordinaria leggerezza comportamentale.
Si riferisce al questionario di autovalutazione richiesto dall’Oms a cui per 5 anni su 10 l’Italia non ha risposto?
Esatto.
Ritiene che quanto avvenuto stimolerà in futuro, o abbia già stimolato, una maggiore attenzione sul tema della preparazione e predisposizione delle risorse per far fronte a un’eventuale emergenza sanitaria?
Non mi sembra, sinceramente, perché l’atteggiamento che noto è di tipo assolutamente episodico, vocato al presente. Si può affrontare un problema del genere soltanto con un forte coordinamento interministeriale, con la chiara identificazione di una catena di comando e delle relative responsabilità. Purtroppo la forte frammentazione delle competenze tra ministero della Salute, ministero degli Affari sociali e ministero degli Interni – cui afferisce anche la Protezione civile – porta all’impossibilità reale di effettuare un buon piano. Prima va definita la catena di comando e vanno definite le responsabilità, inoltre va uniformato il sistema di raccolta e gestione dati da parte delle regioni, perché l’eterogeneità nella gestione dati e la parcellizzazione anche di determinati interventi a livello regionale preclude la realizzazione di un piano.
Nel dossier si evidenza infatti anche lo scarso coordinamento interministeriale e di coordinamento delle regioni nelle attività di preparazione ed emergenza. Quanto secondo lei questo ha pesato veramente nella cattiva gestione della pandemia?
Alla fine si torna sempre al titolo V della Costituzione, cioè va in qualche modo posto un limite all’attitudine locale a legiferare, quando, nell’interesse generale dello Stato e dei suoi cittadini, serve un intervento assolutamente uniforme e coordinato su tutto il territorio nazionale.
Cosa è cambiato a suo avviso dal 2007 al momento dello scoppio della pandemia da Covid? Forse l’assenza di emergenze pandemiche ha assorbito in quegli anni il nostro sistema sanitario e ospedaliero in sforzi più urgenti? O non c’è giustificazione a questo tipo di inadempienze?
In realtà noi abbiamo anche in ambito universitario e di promozione della ricerca una grande attenzione a temi particolarmente raffinati di biologia molecolare, di oncologia, di immunologia e via dicendo, mentre è del tutto calata l’attenzione sulla dimensione delle patologie infettive, come se si trattasse di un problema banale, trattabile sempre alla stregua dell’influenza: con il vaccino e con sintomatici, quindi senza una percezione del rischio.
Quindi cosa è cambiato?
Nel momento in cui si è posta la necessità di affrontare la situazione, l’unica cosa che realmente è cambiata è stato l’eccezionale sforzo, direi proprio a livello individuale, locale, da parte dei sanitari tutti nel far fronte alla situazione, ma sul piano politico e amministrativo il continuo susseguirsi di disposizioni le une in contraddizione con le altre ci fa chiaramente percepire che nulla è cambiato. Quella frammentazione cui accennavo prima, oltre che una frammentazione di potere, è una frammentazione del percorso logico-deduttivo. In ultima analisi è l’incapacità di fare sintesi e trarre delle conclusioni univoche. Siamo ancora in questa situazione.
Nel biennio 2012-14, come lei accennava, l’Italia avrebbe dovuto teoricamente procedere alla redazione ex novo del piano, che invece, fino allo scoppio della pandemia, è stato semplicemente riconfermato nella sua forma originaria, di biennio in biennio. Secondo lei quanto davvero questo aggiornamento ci avrebbe resi più pronti a fronteggiare un evento così inatteso e sproporzionato?
Sta di fatto che le tre nazioni con la più alta mortalità, Belgio, Spagna e Italia, erano le tre nazioni senza un piano aggiornato. Questo ci può dire indirettamente che con ogni probabilità il piano ci avrebbe aiutato. È chiaro che ci avrebbe aiutato in funzione della qualità del piano medesimo, ma io credo che, ove fosse stato affrontato seriamente il problema, sarebbe stato prodotto un buon piano. Soprattutto, considerando che qualunque piano presuppone di uniformare delle norme regionali, il piano avrebbe evitato a mio avviso ciò che si è visto in Lombardia nella prima ondata.
Pare che proprio i Paesi col piano pandemico meno aggiornato, come appunto Italia, Belgio e Spagna, abbiano subito le più drammatiche conseguenze anche in termini di eccesso di mortalità. Perché ci siamo interrogati a lungo sull’elevata mortalità del Covid in Italia e abbiamo passato in rassegna tutte le cause ma non la mancanza di un piano pandemico, che era forse la più evidente, anche se la più responsabilizzante per noi?
Fa benissimo a sottolinearlo, è un motivo che non è stato citato e che avrebbe meritato di essere citato, perché la razionalizzazione dell’approccio si traduce in un efficientamento del medesimo. Quindi è verosimile che in difetto di tale razionalizzazione la mortalità sia aumentata, almeno in parte, per questo.
(Emanuela Giacca)