La giustizia italiana, si sa, non ha dimestichezza con l’orologio. Non a caso abbiamo i processi più lunghi d’Europa. Salvo quando qualche avviso di garanzia o qualche perquisizione scatta con un tempismo da metronomo musicale più che da orologio per interferire con i fatti della politica: è capitato e ricapiterà.
Ma l’inchiesta con cui il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri ha costretto alle dimissioni l’ormai ex segretario dell’Udc Lorenzo Cesa non autorizza il ricorso al sillogismo. Stavolta si direbbe che l’orologeria torbida di certe toghe non c’entra mentre c’entra – eccome – nei riverberi politici che quell’inchiesta sta indubbiamente avendo sulla crisi di governo, il conto alla rovescia che sta vivendo quello che fu il Movimento 5 Stelle sulla strada della sua dissoluzione per assoluta mancanza di indizi di competenza.
Il problema della politica italiana oggi è la giustizia che non funziona, come invano ci rimprovera l’Europa (e proprio ieri la Bce), non la giustizia che funziona troppo. E il problema del governo – il Conte bis oggi, ma qualunque altro domani, finché resterà in carica questo Parlamento – sono i Cinquestelle in genere e alcuni in particolare: per esempio il Guardasigilli Alfonso Bonafede, pezzo grosso dei grillini e tra l’altro grande supporter personale del premier, che proprio lui introdusse al vertice dello pseudo-partito generato dalle distopie del comico triste di Genova.
Dunque proviamo a capirci. Gratteri ha parlato chiaro: “Noi abbiamo saputo che dovevano arrestare l’assessore Talarico, insieme agli altri – ha dichiarato ai giornali – quando è arrivata l’ordinanza del gip, all’inizio di gennaio, a un anno di distanza dalla nostra richiesta e a sei mesi dall’ultima integrazione. Le elezioni in Calabria erano fissate per il 14 febbraio, avremmo aspettato il 15 per non interferire sulla campagna elettorale, ma poi sono state rinviate ad aprile: non potevo lasciare arresti in sospeso per decine di persone altri tre mesi”.
Ineccepibile. Poi su Cesa ha aggiunto, il supermagistrato, e se lo poteva risparmiare: “Io fino all’altra sera gli ho sentito dire in tv che lui e l’Udc non sarebbero entrati nella maggioranza, quindi questo problema non si è posto. Se ora qualcuno vuole sostenere il contrario lo faccia, ma io l’ho sentito con le me orecchie”.
Infine, e pro-memoria: Gratteri era il ministro della Giustizia che avrebbe voluto nel suo governo Matteo Renzi ma che l’allora presidente Napolitano bocciò (Napolitano, a torto o a ragione, era uno che interveniva). Qualcuno dirà: appunto, per questo Gratteri è legato a Renzi e per amicizia verso Renzi ha azzoppato l’Udc. Palle. Gratteri è uno tagliente come un rasoio, che chiunque dovesse mai coinvolgere in un governo si rammaricherebbe ben presto di averlo fatto perché non guarda in faccia nessuno, mentre la politica è quel posto in cui tutti scrutano le facce di tutti per distinguere continuamente finti amici da finti nemici.
Dunque, riepiloghiamo: Gratteri decapita mezza politica calabrese e l’effetto collaterale è anche quello di decapitare l’Udc, che invece nel frattempo Giuseppe Conte sta disperatamente cercando di portare nella maggioranza di governo per sostituire i senatori di Italia Viva che sono passati all’opposizione. Quindi i grillini duri e puri di scuola dibattistiana si stracciano le vesti e dicono a Conte: “Giammai con l’Udc, onestà onestà!”.
Però attenzione: Cesa non è senatore. Cesa non è l’Udc, ne è stato capo, potrebbe tornare ad esserlo se verrà assolto (come Calogero Mannino, Nunzia De Girolamo, Antonio Bassolino, Filippo Penati, Francesco Storace, Clemente Mastella, Sandra Lonardo, Nicola Cosentino, Vasco Errani, Raffaella Paita, Roberto Maroni, Salvatore Margiotta, Ignazio Marino, Raffaele Fitto, Beppe Sala, Renato Schifani e fermiamoci qua perché basta e abbonda). Ma anche se verrà assolto, ciò accadrà tra qualche anno, dopo che la sua carriera politica sarà stata dissolta e sarà tutta da ricostruire, e nessuno pagherà per questo: non a caso si diceva che il problema italiano è la giustizia che non funziona. E nel frattempo? Tutti gli italiani per bene che hanno votato Udc devono essere espropriati dei propri rappresentanti politici?
L’Europa ci chiede, ci intima da anni, di riformare la giustizia. E chi dovrebbe riformarla? Alfonso Bonafede! Sostenuto da quale partito? Dai Cinquestelle, che sullo slogan “onestà, onestà!” si sono fatti una carriera, salvo poi inciampare in una sfilza di scandali non tanto giudiziari (anche per rubare bisogna saper fare qualcosa) ma politici, di insipienza, pochezza, voltagabbanismo, inconsistenza.
Bonafede, poi, con la sua linea di condotta opaca e contraddittoria nel caso Di Matteo, cioè la controversa nomina del capo dell’amministrazione penitenziaria, non si è certamente coperto d’onore. E proprio a lui toccherà la prossima sfida del governo in Senato, mercoledì 27, nel presentare la relazione sullo stato della Giustizia (Gesù!) e sarà dura che i soccorsi istituzionali avuti dal governo sulla fiducia potranno essere replicati.
Dunque se oggi l’Udc è improvvisamente diventata “irricevibile”, per i Cinquestelle, tra gli alleati “responsabili” del governo Conte, non è per via della grana occorsa a Cesa ma della grana di essere Cinquestelle. Di non saper cosa volere; di essere lacerati al proprio interno; di aver millantato la sconfitta della povertà e della disoccupazione e mille altre scempiaggini e di non sapere come uscirne, e quindi di non volerne uscire, dal Parlamento.
L’orologio migliore, per i Cinquestelle, non è quello della giustizia: è un orologio fermo.