Christine Lagarde, Paolo Gentiloni (due volte in una settimana), poi Moody’s: un coro monodico si leva dalle autorità economiche europee e dall’agenzia che dà i voti al debito italiano. Preoccupano i ritardi, preoccupa il confuso assemblaggio di provvedimenti nel quale si stenta di trovare una logica che vada al di là dell’emergenza, preoccupa la debolezza del capitolo dedicato alle riforme, preoccupa l’incertezza politica. Tutte preoccupazioni strettamente legate l’una all’altra che richiamano gli inviti e i moniti rivolti da Sergio Mattarella, fin dal messaggio di fine anno. Più sfumate le voci europee, più espliciti gli analisti americani, ma è evidente che il piano per la ripresa non decolla non per mancanza di proposte (semmai ce ne sono persino troppe e troppo affastellate, come se si volesse accontentare tutti seguendo la logica delle Leggi di bilancio), ma per mancanza di guida strategica, di leadership e di governance, potremmo dire con gli anglicismi che vanno molto di moda.
Il messaggio, in sostanza, è il seguente: un progetto come il Recovery plan, un’occasione unica che non si ripeterà probabilmente mai più, deve essere sostenuto da un Governo solido e un consenso il più ampio possibile. Invece, il Conte-bis ha ottenuto una maggioranza così fragile e risicata al Senato da rendere impossibile la gestione dei lavori parlamentari, quindi l’applicazione del piano. Il presidente della Repubblica ha già spiegato che non si può andare avanti con una maggioranza raccogliticcia. Non sappiamo che cosa abbia detto a Giuseppe Conte durante l’incontro di mercoledì, ma senza dubbio Mattarella gli avrà ripetuto l’invito a trovare una soluzione seria, visto che il capo del Governo si considera offeso da Matteo Renzi e non intende riaprire qualsiasi discussione con Italia viva.
Non c’è molto tempo, fino a giovedì quando è possibile che il Governo vada in minoranza sulla relazione del guardasigilli Alfonso Bonafede alle camere sullo stato della giustizia. In tal caso il presidente del Consiglio non potrebbe che salire al Quirinale e rimettere il suo mandato, come fece nel 2011 Silvio Berlusconi. È chiaro che Conte vuole evitarlo a tutti i costi, ma forse sarebbe una via d’uscita lineare da questo pasticcio che assomiglia a uno di quei vaudeville francesi in cui uno entra da una porta ed esce dall’altra per poi rientrare da una terza apertura del palcoscenico.
Esiste un piano B, o meglio una terza via tra un governo Conte azzoppato incapace di gestire sia la pandemia sia la ripresa, ed elezioni anticipate che in realtà nessuno vorrebbe se si esclude Giorgia Meloni, nemmeno il Pd nonostante il “penultimatum” di Nicola Zingaretti (e non sappiamo nemmeno se sarebbero tecnicamente possibili prima che cominci a fine luglio il semestre bianco)? Il presidente del Consiglio prova a rastrellare una manciata di voti qua e là per tamponare il vuoto lasciato da Italia viva che dovrebbe bocciare Bonafede. Un escamotage di basso profilo. Sarebbe meglio incassare il no e rimettere il mandato, contando su un nuovo incarico, non essendoci alternative, almeno in prima istanza. Se così fosse, Mattarella potrebbe fissare alcuni paletti: dare vita a un nuovo Governo a termine per superare il vuoto istituzionale, varare il Recovery plan e preparare le elezioni una volta eletto il nuovo presidente della Repubblica. Si tratterebbe insomma di un Conte a termine, un governo presidenziale in versione “morbida”. Su questa base diventa possibile un dialogo a tutto campo senza dubbio con Italia viva, ma anche con Forza Italia e con la stessa Lega. L’opposizione può accettare questo schema, ma chiedere una discontinuità; il rischio c’è, in questa fase però non c’è via d’uscita dall’impasse senza accettare una buona dose di rischio.
La Commissione europea è stata molto chiara sul da farsi: occorre riformare la giustizia, la Pubblica amministrazione, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, le pensioni. Le linee guida messe per iscritto valgono per tutti, però è evidente che nel mirino c’è l’Italia alla quale andranno 209 miliardi di euro, di gran lunga la fetta maggiore della torta. Il piano B consentirebbe anche di aprire quel confronto sui contenuti che è stato finora evitato con la tecnica della salsiccia, riempendo cioè il più possibile il piano per accontentare spinte che sono di fatto divergenti. Esiste un contrasto di fondo tra un Pd produttivista che insiste su investimenti e cantieri e un M5S assistenzialista che vuole distribuire un reddito che non c’è aumentando il debito e sperando che la Bce continui a comprarlo senza limiti, una scommessa destinata a rivelarsi sbagliata. Non se ne parla abbastanza; è chiaro che il Governo vuole smussare gli angoli, mentre l’opposizione tende a fare di tutt’erba un fascio, ma un chiarimento non è più rinviabile. Non basta un rimpasto, un giro di poltrone, se manca una visione comune e una precisa strategia.