La crisi in corso ha già un vincitore. Lasciate due palline scorrere inesorabilmente su di un piano inclinato e chiedete a due giocatori di fermare la propria prima che cada. Chi vincerà? Secondo la teoria dei giochi illustrata da Avinash Dixit e Barry Nalebuff, professori di strategia a Princeton e Yale, quando si scontrano due posizioni estreme ed inconciliabili vince sempre chi ha meno da perdere. Il disinteresse all’esito condiziona i giocatori. Perciò chi avrà meno interesse alla competizione fermerà la biglia per ultimo. Conte fermerà la sua rincorsa contro Renzi perché è lui che ha da perdere. Ma non funzionerà, se questi restano gli umori, ed il il Paese ne uscirà con una ulteriore crisi che porterà, con molta probabilità, alle elezioni. Elezioni per far fuori Renzi e per andare all’incasso di un ipotetico premio per Conte.
Uno scenario che in piena pandemia risulterà incomprensibile. Renzi ha ottenuto il suo risultato, quindi, perché non ci sta a passare altri due anni a fare il senatore semplice, quindi meglio rilanciare. In questo gioco le motivazioni di fondo sono deboli. Che il Governo fosse in affanno è innegabile, così come gli errori commessi nella gestione della pandemia. La crisi era però solo una tattica per tornare al centro del dibattito. Renzi sa che assumersi la responsabilità del governo in una coalizione presuppone che ci sia una mediazione con gli alleati, con i loro limiti ed anche con le loro incapacità. E il dovere era quello di trovare una soluzione nel dialogo. Se le condizioni non consentivano e non consentono di andare avanti si esce dal governo e non si riapre un libro chiuso proponendo una riduzione della stessa coalizione.
Quale che sia la soluzione, e nessuna è scontata, queste settimane sono state utili perché hanno svelato, ancora una volta, quanto ancora manchi una visione e una strategia per governare il Paese e quanto siano stereotipate le soluzioni offerte per il Mezzogiorno.
Sono riemersi i progetti per il ponte sullo stretto, si sono raccontate le solite favole sugli investimenti che verranno, si è per l’ennesima volta persa ogni reale proposta di intervento per il Mezzogiorno sotterrata sotto strati di pressappochismo populista.
Esiste solo una strada, come dimostra l’iniziativa del professor Giannola con il suo manifesto, per il Mezzogiorno. Investire e creare le condizioni per gli investimenti destinando risorse reali e precise alla costruzione di una stagione di crescita che aiuti tutto il Sud del Paese a fare la propria parte per uscire dalla crisi. Una ricetta semplice e allo stesso tempo sovversiva, perché non accetta la mediazione delle promesse senza importi precisi e perché chiede un impegno chiaro ai decisori stessi. Una chiarezza che richiama le appassionate analisi di Emanuele Macaluso, un meridionale concreto e profondo che ha segnato con la sua intelligenza buona parte della riflessione sul Mezzogiorno.
Macaluso era figlio della selezione naturale della Resistenza, uomo politico nel senso più ellenico della parola, formatosi attraverso l’impegno sindacale e passato alla politica del partito comunista professando una umanità ed un’apertura mentale che oggi sarebbe utile ritrovare in alcuni, almeno, dei protagonisti di questa crisi. La sua eredità è giacente con quella di Nitti e Galasso, uomini che al Mezzogiorno ed al suo riscatto hanno dedicato le loro vite. Non invano, almeno. Molte dello loro battaglie sono state vinte (dalle riforme agrarie alla lotta all’analfabetismo) e il rallentamento del Mezzogiorno è figlio dell’ultimo ventennio di errori e sottovalutazioni che hanno messo da parte un pezzo di paese ridotto a bacino di voti e abbandonato dalla politiche di sviluppo.
Ora che la crisi è al suo acme e che ognuno dei giocatori sente il brivido della propria scommessa sulla pelle, pensando che ne sarà di sé e della propria carriera, ora sarebbe utile che tutti loro si fermassero un momento e pensassero se le brillanti tattiche per restare a galla o per far fuori l’avversario saranno ricordate come teatrino insensato o se avranno una dignità quando verranno raccontate.
È l’intera classe politica ad essere ormai incapace di porsi obbiettivi storici e strategici, persa in tatticismi. Ma ora che i giochini stanno per finire, ora che la crisi del Paese sta per manifestare la sua durezza, ora che la fine della stagione del consenso legata alla paura è agli sgoccioli, hanno solo una possibilità: tradire se stessi e le loro tattiche da presunti vincenti e mettersi al servizio del Paese per dare dignità a se stessi e alla Politica. Se non ne avranno la forza il Paese reagirà e, come insegna Capitol Hill, in questi tempi complessi la disperazione organizzata rischia di avere esiti tragici. Vincere in questa crisi, perciò, non è la cosa più importante. Come far uscire il Paese ed il Mezzogiorno dalla crisi è l’unica cosa di cui la politica dovrebbe occuparsi. E non è un gioco ma un percorso fatto di sacrifici.