La settimana scorsa, mentre la crisi dell’Esecutivo iniziava, si sono illustrate le principali scadenze di politica economica interna che chiunque sarà al Governo dovrà affrontare nei prossimi mesi. Di pari importanza, ove se non maggiore, quelle di politica economica internazionale, sulle quali, però, i riflettori sono accesi solo di rado.
Tre impegni sono di grande rilievo: a) la Presidenza italiana del G20 che prevede una serie di appuntamenti (tra cui il Global Health Summit del 21 maggio) che culmineranno nella conferenza a Roma dei leader dei 20 Paesi in programma il 30-31 ottobre; b) la conferenza sul cambiamento climatico, co-presieduta da Italia e Regno Unito, in calendario a Glasgow dal 9 al 20 Novembre; c) la conferenza sul futuro dell’Europa programmata per l’autunno, ma il cui calendario non è ancora stato definito a ragione della pandemia.
Sono appuntamenti che, a causa anche dei mutamenti apportati della pandemia, si svolgono in un contesto del tutto nuovo, e ancora in cambiamento, che richiede grande coesione interna e grande abilità negoziale. La pandemia ha messo in crisi due pilastri su cui si è fondata la politica economica internazionale negli ultimi settantacinque anni e in particolare nell’ultimo quarto di secolo: la globalizzazione su base multilaterale e la leadership da parte di una democrazia occidentale. Tanto più che in numerosi Paesi occidentali la stessa democrazia pare a rischio, a ragione di poteri eccezionali attribuitisi da Governi per contenere la pandemia. Ho trattato questi temi in un saggio apparso alcuni mesi fa su La Rivista di Politica, di cui aggiorno alcune conclusioni.
Gli Stati Uniti (la stessa Amministrazione Biden appena entrata in carica) paiono avere rinunciato alla leadership internazionale che hanno esercitato per decenni. La Cina ha tentato, ma senza successo, di prenderne il ruolo. In Europa, la pandemia ha messo a nudo tensioni e frizioni esistenti da decenni e destinate a durare per diversi anni minando la stessa ragion d’essere dell’Unione europea, se i Governi degli Stati nazionali non saranno in grado di trovare un equilibrio che sarà inevitabilmente instabile. Alle prese con l’esigenza di mantenere tale equilibrio, dato che l’alternativa sarebbe un graduale ma progressivo sfaldamento, l’Ue non sarà in grado d’esercitare una leadership economica mondiale. E, avviluppata nei suoi propri problemi, non tenterà neanche di conquistarla e ancor meno di esercitarla. In circa un quarto di secolo, l’euro non è stato in grado di affiancare il dollaro americano come principale valuta per il commercio internazionale e come strumento di riserva.
L’Ue è di fronte a scelte difficili per trovare un equilibrio inerentemente instabile dato che perché l’Unione mantenga un grado adeguato di integrazione, diversi Stati membri dovrebbero rinunciare a parte di quanto raggiunto in termini di “integrazione nazionale” tra diversi gruppi della società. In particolare, gli elettori dei Governi degli Stati “frugali” del Nord Europa dovrebbe dare, con trasferimenti, continue iniezioni di fiducia alle promesse dei Governi degli Stati considerati, a torto o a ragione, “spendaccioni”. L’equilibrio è, inerentemente, instabile perché risulta da un “gioco” che, schematizzando, ciascun Governo dovrà fare, parallelamente e simultaneamente, su due tavoli differenti e con “poste” anche esse differenti: su quello “interno” con i propri elettori, la posta in gioco è “la popolarità”; su quello “europeo/internazionale” è, invece, “la reputazione” (di sapere bene osservare le regole che il consesso si è dato).
Tale equilibrio instabile, se raggiunto, si estenderà, molto verosimilmente, dal breve al medio e lungo periodo. Una volta superata la crisi economica strettamente connessa alla pandemia, all’interno dell’Ue nascerà, inevitabilmente, un confronto tra Stati sul debito la cui pubblica amministrazione non sarà sostenibile senza la collaborazione attiva di quanti avranno mantenuto adeguati saldi di finanza pubblica. Per convincere i loro elettorati a far proseguire il flusso del supporto, gli Stati spendaccioni chiederanno a quelli frugali la formulazione e – quel che più conta – l’attuazione di politiche di riassetto strutturale che mineranno drasticamente quelli che, a ragione dell'”integrazione nazionale” ormai centennale o quasi, vengono considerati “diritti acquisiti”. Le tensioni aumenteranno e diventeranno centrifughe, accentuando, in ambedue i gruppi di Stati la tendenza ad allontanarsi da una costruzione europea.
Nella ricerca di tale equilibrio pur se instabile, e nella prospettiva della Conferenza sul futuro dell’Europa, mentre non è dato sapere quale è la strategia proposta dal Governo Conte, un interessante documento di proposte è stato diramato dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) a fine novembre: Riformare l’Europa Occasione per Cambiare e Rafforzare il Modello Economico, Sociale e l’Ordine Istituzionale e Politico Europeo. Può essere un buon punto di partenza, ma sinora è stato accolto dai principali interessati a livello governativo da un silenzio assordante.
Il “gioco a più livelli” alla ricerca di un equilibrio tra “integrazione nazionale” e “integrazione internazionale” diventerà caratteristica delle relazioni economiche internazionali dei prossimi lustri, e forse decenni. L’assetto multilaterale creato da quella che venne chiamata “la diplomazia del dollaro e della sterlina” resterà probabilmente immutato nei suoi aspetti fondamentali, ma sarà travagliato dalla ricerca incessante di un equilibro instabile tra i maggiori player che scardinerà le certezze nei fundamental, porrà in condizioni di incertezza le decisioni di tutti gli agenti economici – individui, famiglie, imprese, Governi -, inciderà negativamente e sulla crescita e sulla distribuzione dei suoi benefici.
Formulare linee di politica economica internazionale in tale contesto richiede un Governo coeso con idee chiare sul medio e lungo periodo e con grande scaltrezza negoziale.