Poco prima di decadere, l’amministrazione Trump ha intrapreso una serie di iniziative apparentemente dirette a un possibile riconoscimento formale di Taiwan. Un’evidente rottura della formula “un Paese, due sistemi” che regge le relazioni con il governo di Taipei dalla fine degli anni 70: il riconoscimento nominale dell’appartenenza di Taiwan alla Cina continentale e il riconoscimento di fatto della sua sostanziale indipendenza. Fino ad oggi, la Repubblica di Cina, come si autodefinisce Taiwan, è riconosciuta solo da 15 Stati, dei quali la Città del Vaticano, sotto molti aspetti, è forse il più importante. Da vari commentatori, la mossa di Trump e dei suoi è stata giudicata una sorta di “polpetta avvelenata” lasciata al successore.
Le invasioni dello spazio aereo di Taiwan, negli scorsi giorni, da parte di aerei militari della Repubblica Popolare Cinese porterebbero a pensare a un diverso giudizio sui citati interventi. Per la Cina, essi paiono essere una inaccettabile provocazione alla propria sovranità, non della passata amministrazione, bensì degli Stati Uniti in quanto tali. A differenza di molti commentatori nostrani, Pechino non sembra considerare Joe Biden un pacifista contrapposto al guerrafondaio Trump. Forse ricordando che Biden non si è opposto alle numerose guerre promosse o condivise dal Premio Nobel Obama, di cui era il vice.
Per la verità, nella sua campagna Biden è stato molto netto nell’opposizione alla Cina, opposizione che è bipartisan nel Congresso, anche se ha posto l’accento soprattutto sulle violazioni dei diritti civili, in particolare sugli uiguri dello Xinjiang. C’è da augurarsi che la condanna si estenda anche alla dimenticata odissea del Tibet, dove è in corso da anni una pesante repressione, con la progressiva “cinesizzazione” della popolazione locale e la cancellazione delle espressioni religiose. Particolare attenzione dovrebbe poi essere data alle continue violazioni della libertà religiosa nell’intera Cina, anche contro i cattolici malgrado l’accordo firmato con il Vaticano.
D’altro canto, Pechino non pare molto vincolato dagli accordi internazionali, come dimostra il caso di Hong Kong. Il Regno Unito e la Cina firmarono nel 1984 un accordo che prevedeva il passaggio, dal 1997, dell’ex colonia britannica sotto la giurisdizione di Pechino, con uno statuto speciale che ne avrebbe conservato per 50 anni il sistema istituzionale in vigore. Anche in questo caso la formula era “una Cina, due sistemi”. Ora il regime cinese sta cercando di imporre le proprie regole su Hong Kong, usando la mano dura contro chi chiede il mantenimento della precedente situazione.
La vasta condanna a livello internazionale non sembra aver causato il minimo problema al regime di Pechino, che continua a ribadire che quanto succede nello Xinjiang, in Tibet o a Hong Kong è una questione interna della Cina, dalla quale gli altri Stati devono rimanere fuori. La stessa posizione mantiene Pechino nei confronti di Taiwan, manifestando la sua intenzione di accorciare i tempi, come a Hong Kong, perché anche Taiwan venga inglobata nella Repubblica Popolare.
Spiace dirlo, ma gli Stati Uniti, accettando il principio dell’unica Cina, hanno messo Pechino in una posizione formalmente più forte: a seguito di questo principio, prima o poi la provincia autonoma di Taiwan sarebbe stata ricondotta sotto un più diretto controllo, se non addirittura annessa. La posizione di Tsai Ing-wen, l’attuale presidentessa di Taiwan al suo secondo mandato, molto ferma nel rifiutare il modello “una Cina, due sistemi” ha spinto Pechino a definire l’isola esplicitamente come una “provincia ribelle”.
Negli anni 70, il “riconoscimento di Pechino e il disconoscimento di Taiwan”, per usare i termini di Francesco Sisci nella sua intervista al Sussidiario, ha probabilmente la sua ragione nel tentativo americano di approfondire il distacco in corso allora tra la Cina di Mao e l’Unione Sovietica. Dopo la sua dissoluzione è prevalsa l’idea di un mondo ormai dominato solo dalla potenza, democratica, degli Stati Uniti. In questa visione, il nemico principale è rimasta la Russia, insieme all’estremismo islamico, con poca attenzione alla Cina, considerata alla stregua di un Paese in sviluppo utile agli Usa, e all’Occidente, come mercato da sfruttare e che, per il basso costo della sua mano d’opera, poteva dar luogo a proficue delocalizzazioni. Tanto più che, data la sua propensione al risparmio, la Cina era un buon acquirente dei titoli di Stato statunitensi. È ciò che Sisci definisce “una sorta di benedizione politica e diplomatica alla Cina” e “una specie di lubrificante politico”, da cui ora Pechino si sente libera e pronta a passare all’incasso, approfittando della debolezza degli altri Stati, compresi gli Stati Uniti.
La situazione è estremamente pericolosa, dato che né Pechino, né Washington sembrano poterne uscire senza pesanti conseguenze di immagine e non solo; né si può contare sull’intervento fattivo di organismi internazionali o di altri attori. L’unica possibilità sembrerebbe un nuovo accordo tra Usa e Cina, con la partecipazione di Taiwan, che porti a una soluzione di compromesso, in cui ciascuna parte rinunci a qualcosa. Altrimenti rischia di risuonare ancora la domanda posta allo scoppio della Seconda guerra mondiale: “Vale la pena morire per Danzica?”. O per Taiwan?