Ci sono autori che ti portano nell’inferno dei lager e ti abbandonano in una desolante sensazione di impotenza. Ce ne sono altri che ti portano nello stesso inferno illuminandolo con un’irriducibile “voglia di vita, di amicizia di libertà”. Il libro di Margarete Buber-Neumann (1901-1989) Prigioniera di Stalin e Hitler (1949) appartiene – come altri rari capolavori – alla seconda categoria. La sua particolarità è di riunire in un’unica rappresentazione i due atti della reclusione dell’autrice nel gulag staliniano di Karaganda e nel lager nazista di Ravensbrück.
Margarete era stata una giovanissima militante comunista tedesca. Cresciuta in una famiglia borghese di Potsdam, nel cuore della Prussia, nel ’22 aveva sposato Rafael Buber, figlio del famoso filosofo ebreo. Sacrificata la famiglia sull’altare della militanza, divenne in seguito la compagna di Heinz Neumann, personalità eminente del Partito comunista tedesco, reo di non aver condiviso la linea politica di rottura con i socialdemocratici dettata da Stalin. Costretti alla fuga verso Mosca nel ’32 dall’avvento del nazismo, i due coniugi scoprirono a proprie spese la fallacia della loro illusione politica. Buber-Neumann ne parla nel libro Da Potsdam a Mosca. Tappe di una strada sbagliata (1957). Heinz – inserito inizialmente nella nomenclatura del Comintern – venne arrestato dal Nkvd con l’accusa di trotzkismo e fucilato in segreto. Margarete venne condannata a una pena di cinque anni. Destinazione Karaganda, gulag dell’arcipelago siberiano in cui era stato organizzato il sistema produttivo industrial-schiavista sovietico.
Nel ’39, con il patto Ribbentrop-Molotov ancora fresco di firma, Stalin affidò lo sterminio degli eretici comunisti tedeschi direttamente a Hitler. Il trasferimento dei prigionieri, opera dell’Nkvd in collegamento diretto con la Gestapo, è una delle testimonianze storiche più preziose dell’opera di Buber-Neumann. Richiamato dalla profondità della steppa emerse in superficie un piccolo esercito di insetti umani, la cui metamorfosi era giunta a quello stadio di alienazione con cui il seviziato si sottrae – quando ci riesce – agli effetti delle torture. Intellettuali e musicisti, attori, scenografi, politici di professione assieme a operai specializzati, qualche contadino, danzatrici, medici, professori… Un esercito di Gregor Samsa, l’angosciante protagonista del romanzo di Kafka, pensò all’unisono – per un attimo – di essere in salvo. L’allucinazione di massa durò solo il tempo del viaggio verso la Germania, lasciando il posto a un secondo orripilante incubo. A ciascuno toccò il proprio: a chi Dachau, a chi Bergen-Belsen, a chi Auschwitz… A Margarete Buber Neumann toccò Ravensbrück, il campo di lavoro femminile poco a nord di Berlino, dove rimase dal 1940 al ’45.
Fino al ’40 Ravensbrück sembrava quasi un’istituzione civile: “incomparabilmente migliore di (… ) Karaganda”. Per quanto mescolate alla cinica crudeltà, qui una prigioniera riceveva una divisa imbottita, due coperte, tre pasti – quanto mai insufficienti – ma regolari, aveva un letto, un pagliericcio, l’infermeria, le latrine. Lussi che gli internati a Karaganda non osavano neppure sognare. Dal ’42 le differenze tra i due campi man mano svanirono. A Margarete sembrò di essere tornata a Karaganda una seconda volta, solo che il sadismo sovietico era ancora di stampo contadino, mentre quello tedesco, di stampo industriale, aveva fatto l’upgrade. Solzenicyn lo scriverà qualche anno più tardi: “per fare le camere a gas, ci mancava il gas”.
Tra i contributi della testimonianza di Buber-Neumann alla letteratura concentrazionaria vi è la lucida lettura del sistema dei campi come perversione del sistema economico: un sistema misto industrial-schiavista, dove l’eccedenza di manodopera, procacciata dalle conquiste belliche e dagli arresti di massa, ne annulla il valore, ne pianifica l’obsolescenza e lo smaltimento. Il disprezzo della dignità umana tipico di entrambi i sistemi è un risultato, un epifenomeno morale, che ne diviene a propria volta una causa, alimentando il processo.
Tornata in libertà dopo sette anni di reclusione la “piccola prussiana” mantenne fede alla promessa fatta a Milena Jesenská, l’amica giornalista praghese destinataria delle lettere d’amore di Kafka, morta a Ravensbrück tra le sue braccia, di scrivere un’opera sull’esperienza dei due campi. Nel ’49 pubblica Prigioniera di Stalin e Hitler in lingua tedesca. Subito dopo, nel ’50, esce l’edizione inglese, col titolo scandaloso Under two Dictators. All’epoca – lo sottolinea Victor Zaslavsky nell’introduzione – “anche solo il tentativo di mettere a confronto il regime nazista e quello staliniano sembrava un sacrilegio”.
Con il suo libro Margarete Buber-Neumann si levava a difesa di milioni di schiavi rimasti nelle carceri e nei gulag, denunciava la dittatura rimasta in piedi dopo la guerra e insegnava che l’equazione “antifascismo = democrazia” è falsa. Prima che Hannah Arendt desse alle stampe il saggio sul totalitarismo, prima che Grossman iniziasse Vita e destino e Solzenicyn Arcipelago Gulag, Prigioniera di Stalin e Hitler divenne il best-seller del samiszdat, il circuito illegale dove il dattiloscritto girava con la stampigliatura: “solo per una notte”, la formula usata per i libri di massimo interesse.
In Italia l’autrice non ha mai goduto di buona stampa. La traduzione completa del suo libro dovette attendere 45 anni, e non si trovò, in quel lasso di tempo, un solo editore che tenesse in considerazione la regola aurea della psicoanalisi: “non censurare”.