Per molti analisti americani il confronto con la Cina sembra probabile o addirittura inevitabile. Graham Allison, professore di scienze politiche ad Harvard, lo spiega con l’esistenza di una “trappola di Tucidide” che vorrebbe che, come l’ex Sparta nei confronti di Atene, l’ascesa cinese finirà per spingere gli Stati Uniti a ricorrere alla forza nel tentativo di mantenere la propria supremazia minacciata dall’ambizioso outsider: Pechino e Washington sarebbero così “destinate alla guerra”.
Le ragioni per essere pessimisti sono tanto più forti poiché, nonostante la moderazione e il tatto che Graham Allison pone come conditio sine qua non per evitare lo scenario peggiore, Donald Trump ha costruito la sua campagna ponendo in essere una critica virulenta alla Cina, il tutto in termini molto poco diplomatici .
Nell’ultima edizione di The Tragedy of Great Power Politics, John Mearsheimer fa eco a questa direzione pessimistica affermando che la probabilità che scoppi una guerra tra gli Stati Uniti e la Cina è molto maggiore oggi di quanto non sia mai stata durante la Guerra Fredda quando vi era la contrapposizione tra Usa e Urss. In effetti, i territori oggi contesi sono geograficamente e demograficamente relativamente insignificanti (isolotti, territori marginali) il che potrebbe eliminare ogni inibizioni per un eventuale conflitto: paradossalmente un conflitto sarebbe oggi più facile rispetto ai tempi della Guerra Fredda quando era il cuore dell’Europa occidentale ad essere che in gioco.
Per Mearsheimer, la Cina è impegnata in una classica ascesa al potere che segue fedelmente la strategia una volta adottata da Washington: prima prendere il controllo del suo ambiente regionale al fine di eliminare ogni minaccia nel suo cortile (questa era la funzione della dottrina Monroe), poi sviluppando una capacità di proiezione militare di livello mondiale (questa era la lezione di Mahan). Questo spiegherebbe perché la Cina sta ora cercando di stringere legami con i vicini americani degli Stati Uniti: infatti ciò le consentirebbe di costringere Washington a concentrarsi sulla gestione del suo cortile occidentale piuttosto che di quello del lontano teatro asiatico.
Se ci si deve fidare di queste fosche previsioni, sarebbe in definitiva nell’interesse degli Stati Uniti accelerare il confronto con Pechino per combattere il prima possibile, purché goda ancora di una significativa superiorità militare.
Per il saggista asiatico olandese Ian Buruma, le cupe previsioni di Mearsheimer sono infondate perché non tengono conto delle molte debolezze della Cina: una demografia che invecchia, l’inquinamento endemico e un’economia non prospera. Una guerra potrebbe anche fornire un’opportunità per la società civile di ribellarsi al regime comunista.
Un’analisi condivisa da Joseph Nye che ritiene che sarebbe sbagliato credere che il secolo americano sia finito perché, sia nel campo del soft power che dell’hard power, gli Stati Uniti continuano a dominare in gran parte la Cina e nulla suggerisce che la Cina possa raggiungerli rapidamente. Alcuni, come il saggista cinese-americano Gordon G. Chang, si azzardano persino a profetizzare un imminente “crollo della Cina”, dice, causato da uno shock finanziario. Amitai Etzioni, docente di Relazioni internazionali alla George Washington University, sottolinea da parte sua che il potenziale militare cinese non costituisce attualmente una minaccia credibile per gli Stati Uniti, che possono peraltro contare su una solida rete di alleati in Asia. Alleati tanto più fedeli quanto l’ascesa al potere della Cina accresce le loro preoccupazioni. Etzioni ritiene inoltre che mentre la Cina ha ambizioni revisioniste quando si tratta dei confini asiatici, non vede nell’uso della forza il modo naturale per soddisfarli.
Si potrebbero quindi trovare dei compromessi, come spiega l’ex corrispondente da Pechino del New York Times Howard W. French. Secondo lui, quelli che prevedono una futura guerra tra Cina e Stati Uniti si sbagliano sulle ambizioni cinesi. La Cina non è fondamentalmente una potenza imperialista o colonialista. Non pretende, come gli Stati Uniti, di possedere una verità universale di cui dovrebbe garantire la propagazione e la protezione su tutta la superficie del globo. Senza dubbio la Cina si vede come l’Impero di Mezzo, cioè il centro del mondo, ma questo non significa che pretenda di dominarlo. Al contrario, ritiene che, oltre al centro civilizzato che costituisce il mondo sinizzato, le periferie “barbare” debbano essere pacificate, eventualmente soggiogate dall’imposizione del pagamento di un tributo, ma in nessun caso controllate direttamente mediante occupazione o interferenza.
C’è quindi spazio per trovare un compromesso e, piuttosto che prepararsi alla guerra, Washington dovrebbe cercare di agire da intermediario tra i suoi alleati asiatici e Pechino con l’obiettivo di raggiungere un compromesso regionale accettabile per negoziazione.
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