Il Covid-19 non ha provocato il tanto temuto crollo degli immatricolati all’università. Questo rischio è stato scongiurato, va dato atto, anche grazie alle misure messe in piedi dal Miur.
Tuttavia, le sfide per le università non sono finite e l’ostacolo è sempre dietro l’angolo. Tra la didattica a distanza e i vari problemi che affliggono gli atenei italiani, la riduzione della popolazione in età giovanile, bacino principale dei nuovi immatricolati nelle università, potrà essere il pericolo principale da fronteggiare nei prossimi anni. Secondo le stime dell’Istat, nel 2040 la popolazione giovanile tra i 18 e i 20 anni sarà pari all’85% di quella del 2020. Complessivamente, nel prossimo ventennio (2021-2040) i giovani italiani saranno circa 1 milione e 600mila in meno rispetto a quelli del ventennio precedente (2001-2020).
Con l’Osservatorio Talents Venture abbiamo cercato di capire quale potrebbe essere l’effetto sulle immatricolazioni causato dalla curva demografica e quali atenei e territori potrebbero essere più colpiti. Al di là dei risultati ipotizzati dai diversi scenari – circa 17 atenei potrebbero ritrovarsi senza nuovi immatricolati se non dovessero aumentare i tassi di diploma e di immatricolazione all’università, mentre potrebbero servire fino a 29 nuovi atenei qualora questi tassi dovessero continuare a crescere come fatto negli ultimi anni – in quest’articolo si vuole analizzare le leve a disposizione per scongiurare scenari catastrofici.
Tra i fattori che influenzeranno fortemente l’evoluzione del sistema universitario in Italia vi è sicuramente l’aspetto demografico – variabile che non potrà essere influenzata per i prossimi anni – unito a una forte sensibilizzazione sull’importanza di istruzione e dell’orientamento post-diploma, direttamente responsabili dell’aumento dei tassi di immatricolazione. Tuttavia, per immaginarsi l’università del futuro, si dovrebbero considerare almeno altri due macro-fattori.
Il primo riguarda l’internazionalizzazione crescente del mercato dell’istruzione, specie in uno scenario in cui le lezioni blended (misto presenza e a distanza) potrebbero prendere sempre più piede. Uno studente italiano potrebbe frequentare un’università in Cina, Regno Unito o Stati Uniti comodamente dal divano di casa sua e recarsi in ateneo solamente per brevi periodi dell’anno. Il lato positivo della medaglia è che, allo stesso modo, studenti internazionali potrebbero invece voler accedere ai corsi degli atenei italiani, se opportunamente comunicati.
In questo scenario un’opportunità fondamentale sarà rappresentata dal continente africano. Nel 2040 ci saranno circa 190 milioni di giovani africani in età universitaria. Questo bacino rappresenta un’opportunità per gli atenei del nostro Paese. Gli atenei italiani infatti – persa la sfida di attrarre le popolazioni in crescita negli anni precedenti (Sud America, Cina e India) – possono attrarre, anche grazie alla vicinanza geografica, i giovani africani che potrebbero giocare un ruolo cruciale nella composizione degli atenei italiani dei prossimi anni.
Il secondo fattore da prendere in considerazione per immaginare il futuro dell’università italiana riguarda la crescente competizione dei colossi tecnologici interessati a entrare nel mercato dell’education (si veda la recente offerta di certificazioni da parte di Google). La didattica, sia per contenuti che per modalità di erogazione, dovrà scontrarsi sempre di più con soggetti attinenti a settori dell’istruzione informale che competeranno con gli atenei per attirare l’attenzione dei futuri studenti.
Se internazionalizzazione e competizione dei Big tech sono già visibili all’orizzonte, non appare scontato menzionare che gli unkown unkowns (com’è stata la pandemia da Covid-19) possano sempre aggiungere ulteriore complessità inaspettata.
Per concludere, appare quindi fondamentale valorizzare le risorse che potranno arrivare dal Recovery Plan per non perdere ulteriore terreno rispetto agli altri Paesi europei. Per far fronte agli scenari evidenziati, il sistema universitario dovrà muoversi sue due direttrici.
Da un lato, lavorare sul lato della domanda. Riducendosi la popolazione giovanile, sarà ancora più importante puntare su un corretto orientamento sui più giovani per aumentare i tassi di passaggio. Sarà interessante la possibilità di valutare iniziative per aumentare, da un lato, gli immatricolati nella fascia di popolazione più adulta, nella prospettiva del cosiddetto lifelong learning, e dall’altro gli studenti stranieri, per sfruttare appieno il fenomeno dell’internazionalizzazione dell’education.
Allo stesso modo, per stimolare e accogliere una maggior domanda di istruzione, si dovrà lavorare anche sul lato dell’offerta ed è qui dove c’è maggior bisogno di un utilizzo efficace del Recovery Plan. Ci si dovrà focalizzare, infatti, per adeguare gli asset tangibili e intangibili. Per i primi sarà necessario ammodernare le infrastrutture come aule, spazi di studio e di residenzialità. Per i secondi, sembra opportuno affermare che le azioni dovranno puntare sulla differenziazione (da altri atenei e player informali). Servirà ragionare su nuovi metodi di fare lezione per aumentare la capacità produttiva per accogliere più studenti con gli stessi spazi (per esempio, lezioni/esami a rotazione), magari anche puntando sull’informalizzazione delle università, che potrebbero acquisire nel perimetro della loro offerta formativa istituzioni formative non istituzionali (per esempio, coding bootcamps online o ed-tech start up).
Se si vuole rimanere tra i grandi Paesi del mondo non c’è altra scelta che usare al meglio le risorse del Recovery Plan per stimolare la domanda e adattare l’offerta di istruzione. Gli altri Stati lo faranno e rinunciare a questa opportunità significherebbe affossare definitivamente il nostro Paese. Se si corregge il tiro sull’università si risolveranno a catena tutti gli altri problemi del paese creando un effetto esponenziale e positivo su tutte le altre aree che necessitano di miglioramento.
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