Dopo due decenni in cui quattro differenti gestioni sono riuscite nell’improbabile missione di ridurre drasticamente le dimensioni di Alitalia e i suoi livelli occupazionali, accrescendone nello stesso tempo le perdite, il caso del nostro vettore di bandiera si avvicina con crescente rapidità al suo epilogo. Al momento attuale l’esito più deleterio ma purtroppo più probabile è rappresentato dalla chiusura e smantellamento dell’azienda, con cessazione dei voli e vendita spezzettata dei pochi asset rimasti in capo alla gestione commissariale. Questo esito sarebbe particolarmente deleterio per il nostro Paese sia per le sue conseguenze pratiche che per l’effetto sull’immagine e la credibilità internazionale dell’Italia, compromessa dalla manifesta incapacità di risolvere un problema economico relativamente piccolo e semplice, quello di gestire secondo criteri di mercato e in un contesto concorrenziale la compagnia su cui aerei abbiamo fatto volare per tre quarti di secolo la bandiera nazionale.
Alitalia non è solo una compagnia aerea, è anche un simbolo del Paese. Nel bene e nel male essa era ed è per il mondo una cartina al tornasole dell’Italia, in grado di misurarne e anticiparne le capacità di performance. Quando Alitalia andava bene, nel suo primo quarto di secolo di vita, il Paese era nel pieno del boom economico. Quando il Paese era gestito bene anche Alitalia, non casualmente, lo era, mentre in seguito abbiamo dovuto assistere a due declini paralleli e perfettamente sincronizzati.
Le conseguenze pratiche della messa a terra di Alitalia sono essenzialmente di due tipi: economiche e trasportistiche. Sul primo fronte occorre considerare il venire meno del contributo del vettore al valore aggiunto nazionale, all’occupazione, ai redditi da lavoro e al gettito fiscale; sul secondo fronte gli effetti sui collegamenti aerei interni al nostro Paese e internazionali. Se Alitalia dovesse chiudere partirebbero i meccanismi di protezione sociale verso i dipendenti non in grado di essere assorbiti da altre realtà produttive. A seguito della crisi del 2008 uscirono dall’azienda circa seimila persone e l’onere complessivo per la finanza pubblica generato dal ridimensionamento fu di oltre 4 miliardi di euro, secondo la stima del noto studio di Mediobanca del 2015. La metà di essi rappresentano gli oneri sostenuti per la protezione dei dipendenti estromessi.
Quanto costerebbe ora chiudere completamente Alitalia e coprire, dato che pochissime persone troverebbero rapida collocazione in altre aziende aeree, più di 11 mila dipendenti? Anche ipotizzando strumenti di welfare molto meno generosi rispetto al 2009 sono da mettere in conto almeno tre miliardi di oneri per la finanza pubblica. Questo calcolo tiene conto solo degli occupati diretti di Alitalia e non include gli effetti generati dall’inevitabile perdita di occupazione nell’indotto, un fenomeno difficile da stimare, ma che può essere considerato rilevante se si tiene conto del fatto che per ogni euro di costo del lavoro l’azienda ne spende quasi altri quattro in acquisti di servizi da altre aziende, oltre metà dei quali avvengono sul territorio italiano. Oltre all’esborso per tutelare i lavoratori, ricordato in precedenza e che può essere stimato su base annuale in circa 450 milioni, bisogna inoltre considerare la perdita di gettito per le casse pubbliche, principalmente rappresentata dalle imposte dirette sui dipendenti e dai contributi sociali. Sono almeno 300 milioni di minori entrate che si sommano ai 450 di uscite per welfare, portando il conto totale delle perdite per le casse pubbliche a 750 milioni all’anno per diversi anni. In sostanza chiudere Alitalia avrebbe costi pubblici notevoli.
Riguardo alle conseguenze sui collegamenti aerei ho sostenuto in diverse occasioni qui sul Sussidiario che Alitalia è irrilevante e facilmente sostituibile solo sui voli infraeuropei, dominati dai vettori low cost oltre che dai grandi vettori tradizionali per i soli collegamenti coi loro hub nazionali. Riguardo invece ai collegamenti nazionali e a quelli intercontinentali di lungo raggio Alitalia ha ancora una quota di mercato rilevante e la sua chiusura avrebbe importanti ripercussioni. Senza Alitalia su questi segmenti saremmo destinati a disporre di meno voli e a prezzi più cari, dovendo confidare sul desiderio di guadagno dei vettori restanti e non certo sulla loro benevolenza. Se fallisce l’operatore principale, la conseguenza inevitabile è per lungo tempo una minore concorrenza, una minore offerta e prezzi più elevati.
Anziché spendere almeno tre miliardi per chiudere Alitalia, e rinunciare inoltre alle entrate fiscali da essa originate, sembra dunque una soluzione migliore quella di aver stanziato soldi pubblici, anche in questo casi tre miliardi, per costituire una newco che si chiama ITA e che dovrebbe farsi carico degli asset di Alitalia in amministrazione straordinaria e rilanciarla. Tuttavia questo progetto, partito con diversi provvedimenti normativi nel corso 2020, si sta rivelando irto di ostacoli. Il primo di essi riguarda le condizioni del mercato. Nell’anno che si è da poco concluso, la pandemia ha tolto dai cieli nazionali e dai sedili di Alitalia tre quarti dei passeggeri che vi avevano volato nell’anno precedente. Dopo l’arresto quasi totale del traffico aereo nei mesi successivi all’adozione a marzo 2020 del lockdown, il mercato ha mostrato una certa ripresa nel periodo estivo che si è tuttavia completamente sgonfiata in autunno per effetto della seconda ondata di contagi.
Nei già difficili mesi invernali, i peggiori stagionalmente per i voli aerei, il livello di traffico si è assestato attorno solo a un terzo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno per il complesso dei cieli europei. Nel caso italiano il dato è ancora peggiore, risultando solo di poco superiore a un quinto rispetto allo scorso anno tanto per Alitalia quanto per l’intero mercato. In condizioni normali di mercato alla newco sarebbe convenuto subentrare nei voli ad Alitalia in amministrazione straordinaria all’inizio della prossima primavera, in modo tale da coprire i mesi estivi a elevata domanda stagionale. Poiché non vi sono tuttavia segnali di un riavvicinamento alla normalità nella prossima stagione alla newco non conviene assolutamente subentrare ad Alitalia in autunno per non farsi carico delle elevate perdite invernali. Questo comporta che a ITA convenga restare in letargo per un anno intero, rinviando il decollo operativo alla stagione estiva 2022.
Questo interesse attendista contrasta con quello di segno opposto della gestione commissariale, che avrebbe invece bisogno di cedere quanto prima i compendi aziendali e il conseguente compito di organizzare i voli, non essendo in grado di sostenere ulteriormente le perdite generate dal Covid in aggiunta alle perdite strutturali preesistenti. La gestione commissariale ha seri problemi di cassa e non è in grado di garantire la continuità dei voli coi soli ricavi da mercato, quasi scomparsi a causa della pandemia, e i ristori Covid, sui quali peraltro la Commissione europea sta ponendo ostacoli crescenti. La newco ITA dovrebbe invece poter contare su un’assegnazione di fondi pubblici a titolo di sottoscrizione del capitale per 3 miliardi e non avrebbe dunque problemi finanziari a subentrare nella gestione, ma, anche qualora lo desiderasse, si trova di fronte a ostacoli europei che potrebbero risultare insormontabili.
Si è prodotto in sostanza un doppio impasse: i vertici dell’amministrazione straordinaria desiderano uscire dalla gestione ma non sanno come fare, mentre quelli della newco non sanno se desiderano entrarci, ma in ogni caso non sanno come. Le due gestioni, ambedue pubbliche e finanziate dal contribuente, non riescono a comunicare, separate di fatto da una muraglia cinese di regole europee. In primo luogo l’Antitrust europeo, in capo alla commissaria Vestager, non comprende e non approva un passaggio diretto dei compendi aziendali dall’una all’altra, ma vorrebbe una gara pubblica, aperta su basi paritetiche a chiunque sia interessato. ITA è un’azienda come un’altra, non ha rilievo che l’azionista sia lo Stato. Perché mai dovrebbe avere un canale preferenziale per gli asset di Alitalia, scavalcando altri possibile interessati? È il mercato, bellezza, direbbe qualcuno. Non solo, ma la Commissione Ue vorrebbe anche che la gara fosse organizzata per segmenti: la parte aviation in senso stretto separata dall’handling e dalle manutenzioni e magari dentro l’aviation il marchio venduto a parte rispetto agli slot (i diritti di atterraggio e decollo, preziosi negli aeroporti congestionati), ed entrambi rispetto alla flotta e così via. Una sorta di spezzatino aziendale al termine del quale della vecchia azienda si riconoscerebbe ben poco. Questo percorso oltre a compromettere l’unitarietà e continuità del vettore avrebbe anche l’effetto di far evaporare le prospettive residuali di risanamento e rilancio, peraltro già deboli nell’ipotesi di integrità dell’azienda.
In ogni caso se anche la newco ITA potesse superare la muraglia cinese delle regole europee e acquisire in via diretta gli asset di Alitalia non potrebbe, sempre per norme comunitarie, usarli per esercitare il trasporto aereo prima di ottenere il certificato di operatore aeronautico (COA) e la licenza di esercizio, e non può conseguire le medesime prima di aver acquisito i compendi aziendali poiché, non avendo mai svolto in precedenza attività di trasporto aereo, non può dimostrarne la capacità di svolgerla secondo adeguati standard di sicurezza. Questo avviene perché l’uscita dei compendi da un operatore aereo non conserva in capo al loro acquirente il COA e la licenza i quali decadono se cambia il soggetto giuridico titolare degli asset. Per adempiere a tali formalità è ipotizzabile che occorrano cinque o sei mesi, gli stessi necessari per realizzare la gara tanto auspicata dalla commissaria Vestager.
Qui però sorge una domanda: chi vola in questi sei mesi? La newco non può perché non ha ancora gli asset né le licenze, Alitalia in amministrazione straordinaria neppure, non avendo più i soldi per farlo. Infatti, per coprire il semestre servono 200 milioni di fondi pubblici che l’Antitrust europeo non ha nessuna intenzione di approvare. Non resta dunque che mettere gli aerei a terra per sei mesi? Neppure, perché in tal caso i ricavi aziendali si azzerano ma i costi no. E con Alitalia che non vola non sarebbe possibile vendere biglietti per il periodo successivo, che in ogni caso nessun viaggiatore correrebbe il rischio di acquistare. Se Alitalia mette gli aerei a terra è per sempre, è la fine della sua storia. Ed è anche la fine dei suoi asset più pregiati, gli slot e i passeggeri: i primi si perdono se non se si vola, mentre i secondi, scusate il gioco di parole, se non si vola si volatizzano, evidentemente alla ricerca di altri vettori che li trasportino.
Com’è evidente siamo di fronte a un rompicapo, ma esso non si esaurisce qui. Ipotizziamo ciò che ora è impossibile: ITA riesce ad acquisire gli asset di Alitalia e inizia a volare mentre l’amministrazione straordinaria riesce a cederli prima di finire i soldi. Come andrà poi ITA, riuscirà in quella che è stata la mission impossible di Alitalia di stare sul mercato e non perdere soldi? Se dobbiamo desumere da quanto è emerso col piano industriale di ITA presentato al Parlamento la risposta è negativa. La newco è prevista molto più piccola di tutte le Alitalia che abbiamo visto sinora: meno della metà dell’Alitalia attuale in amministrazione straordinaria, un terzo dell’Alitalia dei capitani coraggiosi del 2009 e solo un quinto della somma dell’Alitalia pubblica e di AirOne del 2007 che i medesimi capitani coraggiosi aggregarono solo al fine di ridimensionare, regalando ai concorrenti in un colpo solo una dozzina di milioni di passeggeri.
In Europa nella situazione ante Covid volavano, guadagnavano e dunque resistevano solo tre tipi di vettori: grandi vettori low cost operanti in una molteplicità di paesi, grandi vettori tradizionali focalizzati su un mercato nazionale di grandi dimensioni, vettori medi o piccoli focalizzati su mercati nazionali di medie o piccole dimensioni. Non vi è alcun piccolo vettore che sia riuscito a sopravvivere in un mercato grande. L’unico che vi ha provato è stata Alitalia che infatti è passata da una crisi all’altra. Le dimensioni contano e non si può essere nani in un mercato di giganti. Nel grande mercato italiano l’Alitalia media è ripetutamente fallita, come potrebbe sopravvivervi un’Alitalia piccola?
I tre miliardi stanziati per la newco appaiono decisamente troppi se servono a dar vita a un’Alitalia microscopica e inoltre siamo certi che andranno rapidamente in fumo, ancora più velocemente di quanto sia avvenuto con le Alitalia più grandi che abbiamo sinora visto. Come possiamo permetterci di spendere altri tre miliardi, in aggiunta al miliardo e mezzo che servirà per coprire la metà abbondante dei dipendenti attuali che non troveranno posto nella newco, e agli oltre due miliardi finora spesi per le esigenze dell’amministrazione controllata (1,3 di prestiti ponte, 350 milioni di rimborsi Covid stanziati e oltre 400 per cassa integrazione guadagni dalla metà del 2017 al 2021), per un conto totale che sfiorerà i 7 miliardi? E senza aver ottenuto nulla di sostanziale in cambio?
Vi è un modo per spendere meglio i soldi pubblici, magari secondo modalità di mercato che soddisfino i rigidi criteri dell’Antitrust europeo? A mio avviso ne esiste uno solo, alternativo all’unica altra soluzione di mercato che consiste nel chiudere Alitalia. Si tratta di utilizzare i tre miliardi già stanziati non per cercare di far decollare una compagnia microscopica, bensì per acquisire una partecipazione di rilievo in un grande vettore europeo al fine di integrare nel medesimo quel che resta di Alitalia e di affidargli da azionisti il rilancio e la crescita dimensionale del vettore nazionale, quello che avremmo dovuto fare noi nel corso del tempo, ma che non abbiamo neppure provato dopo la metà degli anni ’90.
Per proporre un’operazione di questo tipo occorre che sia lo Stato a disporre degli asset di Alitalia ed è evidente che essi non possano essere dispersi attraverso gare spezzatino. Questo esito strumentale può essere ottenuto attraverso una soluzione normativa che stabilisca che i prestiti pubblici, concessi nel tempo ad Alitalia con la clausola del rimborso prioritario rispetto a ogni altro debito, siano ora rimborsati in natura attraverso il trasferimento allo Stato creditore dei compendi aziendali. In sostanza, non avendo l’azienda debitrice i soldi per rimborsare i prestiti, semplicemente essa cederà al creditore i beni che possiede grazie a quei prestiti, come avverrebbe tra una banca e un mutuatario insolvente. Questa non è però un’idea nuova, avendola già descritta in un articolo sul Sussidiario dell’ottobre 2019, e, congiunta alla precedente, rappresenta una strategia totalmente di mercato e pienamente compatibile con le regole europee.
Naturalmente gli altri grandi vettori europei potrebbero non spalancare le porte a soluzioni di questo tipo, ma l’eventuale diniego farebbe emergere motivazioni non propriamente di mercato, bensì legate a fattori politici di difesa del carattere nazionale dei vettori, esattamente ciò che è stato sinora rimproverato all’Italia per la sua difesa ostinata e costosa dell’indifendibile Alitalia. Se dovessero dire di no è evidente che dovremmo perseguire soluzioni internazionali alternative ricercando, in questo caso da protagonisti anziché da comprimari, partnership differenti dai grandi vettori europei. Ciò che si deve assolutamente evitare è il fai da te nazionale, destinato con certezza a un costoso insuccesso.
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