A essere poveri, succede questo: che ti trovi costretto con le spalle al muro a scegliere se mangiare o curarti, e di solito prevale l’urgenza del cibo. Infatti le bocche dei poveri, passata la giovinezza, sono facilmente sdentate e inguardabili, perché il dentista costava troppo per le loro tasche e adesso non hanno i soldi nemmeno per farsi in qualche paese dell’est un impianto low cost di scadentissima lega.
Versa in stato di povertà un italiano su dieci, mica poco; dal 2007 al 2019 è quasi raddoppiata la quota di chi si trova in povertà assoluta, dal 3,4 al 6,4%. Difficile immaginare che l’anno del Covid non abbia peggiorato le cose. I poveri – dati dell’Osservatorio sulla povertà farmaceutica – hanno una capacità mensile di spesa per i farmaci di 6 euro pro capite, poco più di un quinto di quanto possono spendere in media gli altri, cioè 28 euro. Quasi mezzo milione di persone non riesce ad acquistare i medicinali di cui ha bisogno.
Questo per dire che la povertà esiste, e che il bisogno non è solo di pasta per i grandi e omogeneizzati per i piccini. Le migliaia di volontari che nei giorni scorsi hanno realizzato, ancora una volta, la raccolta nazionale dei farmaci destinati agli enti caritativi, hanno fatto una cosa egregia. Almeno per due motivi: primo, che ci tengono desta l’attenzione su un bisogno primario; secondo, che ci testimoniano una costruttività in azione, oltretutto di dimensioni assai significative.
I due governi Conte hanno fatto politiche di spargimento di aiuti e bonus (realizzati o promessi), dal reddito di povertà alle agevolazioni per i monopattini elettrici: la prima misura, giusta e necessaria per le persone non ricollocabili sul mercato del lavoro ma decisamente assistenzialistica, e applicata come malaugurata alternativa a qualsivoglia politica attiva per il lavoro; la seconda misura, emblematica di una linea di investimenti ideologici e disutili.
Con l’avvento del nuovo governo, tutti quelli che ragionano si augurano il passaggio da una politica delle sovvenzioni a pioggia a una strategia per lo sviluppo. Giustissimo. Purché si tenga conto che lo sviluppo produce benessere nel tempo, e che esso non può essere perseguito semplicemente tagliando il welfare. Welfare e sviluppo sono due aspetti inscindibili della crescita umana e sociale. Ma non è chi non veda che il welfare ha urgente bisogno di guadagnare in efficienza ed efficacia, di utilizzare bene le risorse che gli vengono destinate, che peraltro non sono infinite.
Stato e mercato non bastano. Occorre il terzo protagonista, che è la comunità. La strada non può che essere quella di un welfare sempre più sussidiario, capillarmente aderente ai bisogni, flessibile e orientato, dovunque sia possibile, a prospettive di recupero e rilancio anche produttivo delle persone. Ad esempio, in una famiglia molto povera, il sussidio economico aiuta la sopravvivenza; ma il contrasto all’abbandono scolastico e l’orientamento dei ragazzi nella preparazione al lavoro sono percorsi fondamentali per mutare e non invece perpetuare la situazione. Un altro esempio: persone disabili possono essere assistite in laboratorio dove si fanno lavori finti e inutili, oppure essere coinvolti in un lavoro vero, produttivo e a reddito, in grado di rispondere positivamente a commesse di importanti aziende. Sono stato recentemente a visitare la Cooperativa sociale “Mirabilia Dei”, a Varese, dove la dimensione dell’accoglienza, della comunità di famiglie, del lavoro produttivo e remunerato di persone disabili sono fuse in un’unica esperienza.
Un welfare sussidiario non può non guardare a queste esperienze.
Le quali, tuttavia, non sono facilmente replicabili se astratte dal fuoco che le alimenta, dagli “io” ridestati da un motivo ideale, che si attivano mettendosi insieme e creando. Come si diceva per il terzo mondo, anche nella nostra sviluppata Europa l’educazione è la prima condizione dello sviluppo. La vera, radicale sfida, è questa. Ed è faccenda non delegabile a Draghi, ma affidata a ognuno di noi.
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