RIFORMA PENSIONI. Itinerari previdenziali, la Fondazione/Centro Studi di cui è presidente e animatore Alberto Brambilla, non è solo una fucina di dati che mettono a fuoco il sistema pensionistico nei suoi aspetti generali o in quelli relativi a particolari istituti: la sua funzione più importante è quella di educare le persone intellettualmente oneste a comprendere il significato delle statistiche e delle situazioni che determinano quei trattamenti che, di solito, requisiscono il dibattito raccolti in un grumo di luoghi comuni, che “fanno notizia”, ma spesso sono la caricatura della realtà. Come allegato all’Ottavo Rapporto, che viene presentato oggi alla Camera, è inserito uno studio sugli importi delle pensioni e sulla loro distribuzione per genere: il che presenta una logica ferrea essendo gli assegni più bassi erogate a lavoratrici.
Non è il sistema pensionistico – come vedremo – a discriminare le donne, bensì la loro condizione nel lavoro e nella società che inevitabilmente si proietta sulla “qualità” della prestazione all’uscita dal mercato del lavoro. Il Rapporto conferma i numeri che rimbalzano nei talk show, magari confondendo a bella posta il dato delle pensioni e quello dei pensionati, rispetto all’importo che di solito viene preso a riferimento: un trattamento di mille euro lordi mensili. Ed ecco il primo caveat: “Le singole prestazioni inferiori a 2 volte il trattamento minimo (circa mille euro mensili) sono 14,7 milioni, pari al 64,6% delle prestazioni in pagamento, ma i pensionati che le ricevono sono 6,3 milioni, cioè poco meno del 40% del totale, peraltro in tutto o in parte assistiti dalla fiscalità: fondamentale allora nell’analisi delle distribuzioni per classi di reddito far riferimento ai pensionati, che spesso percepiscono più prestazioni, previdenziali e/o assistenziali”.
Lo studio si premura di conseguenza di fornire i veri importi delle pensioni. Nel 2019 su un totale di 22.805.765 prestazioni erogate, quelle di importo fino a una volta il trattamento minimo (513,01 euro mensili) sono poco meno di 7,9 milioni (7.882.121 per l’esattezza), ma i pensionati che poi ricevono effettivamente un reddito pensionistico fino a una volta il minimo sono poco più di 2,2 milioni su 16 milioni di pensionati totali. Anche alla successiva classe di importo (da 513,02 euro a 1026,02 euro lordi mensili) appartengono circa 6,86 milioni di prestazioni, cui fanno però da contraltare solo circa 4 milioni di beneficiari.
Un fenomeno – avverte il Rapporto – che non deve sorprendere, ma che dipende dal fatto che un soggetto può essere contemporaneamente beneficiario di più prestazioni che si cumulano tra loro, facendo sì che il pensionato si collochi in una classe di reddito più elevata rispetto a quella più bassa in cui si erano posizionate le singole prestazioni o pensioni. In particolare, con riferimento al 2019, il Rapporto stima una media di 1,422 prestazioni per pensionato (erano 1,424 nel 2018), il che significa che ogni pensionato italiano riceve in media una pensione e mezza: nel dettaglio, il 67,30% dei pensionati ha percepito 1 prestazione, il 24,66% dei pensionati ne ha percepite 2, il 6,76% 3 e l’1,28% 4 o più. Ovviamente, aggiungiamo noi, le medie sono sempre soggette alle statistiche del pollo di Trilussa, ma questa constatazione dovrebbe valere anche in altri casi.
«Se si calcola l’importo medio della pensione – sono parole di Brambilla – sul numero totale delle prestazioni, si ottengono 13.194,35 euro annui lordi (1.015 euro lordi al mese in 13 mensilità), ma facendo riferimento al totale dei pensionati, il reddito pensionistico medio pro-capite risulta pari a 18.765 euro annui lordi (15.404 euro annui netti), quindi 1.444 euro lordi mensili (1.185 euro mensili netti). Eppure, il dato comunemente più diffuso è proprio il primo, che divide il monte pensioni per il numero delle prestazioni, e non per il numero dei pensionati, con il rischio di incentivare fenomeni di elusione fiscale: perché – si potrebbero impropriamente chiedere i giovani – versare per oltre 38 anni all’Inps se poi le prestazioni sono così misere?».
Non solo, come evidenziato da Itinerari Previdenziali, nel calcolo degli importi medi dei singoli trattamenti pensionistici, sarebbe poi più opportuno procedere per tipologia, evitando di mischiare tra loro prestazioni di natura non omogenea, ad esempio perché non egualmente sostenute da contribuzione. Provando a escludere le prime due classi di reddito pensionistico (fino a due volte il trattamento minimo), che sono principalmente assistenziali per quasi 6,3 milioni di pensionati, il reddito previdenziale medio – supportato da contributi – dei restanti 9,7 milioni ammonterebbe a 26.082,16 euro annui lordi (contro gli ufficiali 18.765 euro lordi) pari a circa 20.688 euro annui netti. «Insomma, resta vero che quasi 40% dei pensionati ha redditi pensionistici al più di poco superiore ai mille euro lordi al mese, ma nella maggior parte dei casi non di tratta di pensioni in senso stretto quanto piuttosto di prestazioni assistenziali, non sostenute da contribuzione e quindi di fatto interamente o parzialmente a carico della collettività», precisa Brambilla.
Passando a quello che Brambilla considera “l’altro luogo comune”, ovvero il cosiddetto “gender gap pensionistico”, lo studio mette in evidenza che nel 2019 le donne rappresentano il 51,9% dei pensionati, ma percepiscono il 43,9% dell’importo lordo complessivamente erogato per pensioni (168.884 milioni di euro sono pagati agli uomini e 132.023 milioni alle donne). Sul totale delle prestazioni erogate – previdenziali, assistenziali e indennitarie – le donne percepiscono un reddito pensionistico medio pari a 15.857 euro, reddito che nel caso degli uomini sale invece a 21.906 euro. Un divario che trova dunque reale riscontro nei numeri, ma del quale spesso non vengono analizzate le motivazioni, dando spazio a imprecisioni e falsi miti. Come rilevato da Itinerari Previdenziali, innanzitutto le pensionate registrano solitamente un maggior numero di prestazioni pro capite, in media 1,51 a testa contro le 1,32 degli uomini. Nel dettaglio, le donne rappresentano il 58,5% dei titolari di 2 pensioni, il 68,8% dei titolari di 3 pensioni e il 71% dei percettori di 4 e più trattamenti. Prevalgono nel caso di pensioni ai superstiti (87,2%) e di prestazioni prodotte da “contribuzione volontaria”, solitamente modeste a causa di bassi livelli contributivi, tutte ragioni per le quali molte pensionate beneficiano di importi aggiuntivi, integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali, quattordicesime mensilità e altre misure di matrice assistenziale.
Pertanto, la soluzione al gap pensionistico tra i generi – ribadisce Alberto Brambilla a commento dello studio – non va ricercata all’interno del sistema previdenziale, ma in un avanzamento della condizione lavorativa femminile, attraverso misure e servizi, come quelli all’infanzia, che riducano la discontinuità delle carriere.
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