L’allarme è continuo e arriva da ogni parte: Covid e pandemia aumentano i casi di depressione, stati d’ansia e insicurezza. L’ultimo allarme è del presidente dell’Ordine degli psicologi del Friuli-Venezia Giulia Roberto Calvani che aggiunge che ultimamente a essere più colpiti sono gli under 40. Aumenta anche il consumo farmaceutico di antidepressivi, ma in una sorta di auto-medicazione, senza consultare esperti e psicologi: “Soprattutto gli under 40 – spiega Calvani – sembrano fra i più colpiti da ansie e senso di isolamento e smarrimento. In media si stima che ogni giorno vengano consumate 50 dosi di benzodiazepine per mille abitanti, poco meno per le dosi di antidepressivi: 40 al giorno per mille abitanti”.
Secondo il professor Mario Pollo, professore associato confermato di pedagogia generale e sociale nella facoltà di scienze della formazione della Lumsa di Roma, da noi intervistato, questa situazione è figlia di due ragioni: “Si è imposto dall’alto il lockdown senza aiutare la gente a aumentare il proprio senso di responsabilità e si continua a farlo a zone, ma allo stesso tempo la cultura della società in cui viviamo ha negato il concetto base dell’altruità, cioè si aiuta sé stessi solo nella misura in cui agiamo anche per il bene del prossimo. Ecco perché scattano la depressione e l’insicurezza”.
Aumentano insicurezza e stati d’ansia. Il continuo cambio di normative, l’attesa settimanale per sapere di che colore sarà la regione in cui viviamo, addirittura regioni come la Lombardia di color giallo ma con quattro comuni rossi, incidono su questo?
Penso proprio di sì. Di fatto con questo sistema le persone non hanno alcun livello di autonomia e progettazione individuale. Sono completamente dipendenti da decisioni che vengono prese da altri su cui non hanno alcuna possibilità di intervenire. Lo diceva anche il professor Luca Ricolfi: la scelta di puntare su misure come il lockdown e non puntare invece su quelle comportamentali, fatte di controlli e sanzioni, ha generato questi stati d’ansia e di insicurezza.
Questa è una sentenza un po’ grave, mi permetta. A livello sanitario è quanto meno discutibile, no?
Mi spiego. È fallita la possibilità di prevenire la pandemia attraverso il comportamento delle persone. Il sapere che tu sei dipendente da altri è un po’ la situazione che vivono quanti sono internati e non possono gestire la vita con i propri ritmi perché c’è un sistema regolamentato dall’esterno. Questo crea indubbiamente uno stato di malessere.
Quello che molti chiamano “dittatura sanitaria”? Non si cerca di fare il bene di tutti? Non si giustifica con il fatto che quando una zona cambia di colore, tutti si precipitano per strada, al bar, al ristorante?
Il difetto sta nel non avere reso maggiormente protagoniste le persone dei propri comportamenti. Se si è costretti a fare una cosa senza il minimo ricorso al senso di responsabilità e di solidarietà, si alimentano le situazioni caotiche e con queste i contagi. Attenzione: l’obbligo di rispettare le norme non funziona se la persona pensa solo al modo di proteggere se stessa, funziona quando la persona ha come obiettivo anche la protezione della comunità in cui vive. Quindi sa che dai suoi comportamenti dipende il benessere degli altri.
E l’individualismo che caratterizza da tempo la nostra società? Basta vedere cosa scrive la gente sui social: sono stufo, voglio andare al mare, voglio andare a sciare, eccetera?
Si chiama egolatria, un culto esasperato di sé stessi, che in questo caso crea a sua volta dei problemi. Ci si doveva pensare prima a forme che sviluppassero maggiormente una comunicazione finalizzata al senso di responsabilità e di autogestione. È chiaro che fin quando le persone hanno comportamenti egocentrici la gente sta male, ma non ci si può prendere cura di sé ignorando gli altri. Io mi prendo cura di me quando mi prendo cura dell’altro. Ecco la patologia in cui ci si illude di poter prendere cura di sé ignorando il prossimo. Dicevo ai miei studenti in università: se volete essere davvero egoisti dovete diventare altruisti. Siamo dentro un fenomeno culturale. È una crisi di adultità.
Non a caso i più colpiti sono gli under 40, è per questo?
Alcuni economisti americani denunciano nella nostra cultura un ethos di infantilismo. È il prodotto di una società che ha una economia basata sul consumo, per cui l’economia va bene quando si consuma molto e va male quando si consuma poco. Poiché oggi i prodotti sono molto più dei consumatori stessi, allora per aumentare i consumi bisogna avere adulti bambini, perché certi consumi avvengono solo se c’è un infantilismo di fondo, adulti che non hanno sviluppato completamente la propria adultità, che significa capacità di responsabilità, di sacrificarsi per gli altri. Sono persone che quando non riescono a consumare si sentono a disagio.
Aumenta il consumo di farmaci antidepressivi, ma rifiutando il consiglio medico e psicologico. Questo fa parte dello stesso fenomeno?
Purtroppo anche questo fa parte di un certo modello culturale. Da decenni siamo abituati a proposte di consumo, pubblicità che ti dicono se consumi quell’oggetto, se mangi quello o questo, la tua vita cambia. In università mostravo una pubblicità dove si vedevano dei bambini tristi e annoiati, poi arrivava una nota bevanda gassata e immediatamente i bambini si trasformavano ed era una grande festa.
Che messaggio è questo?
Se basta una aranciata per cambiarti la vita pensa se prendi qualcosa di più. Tu risolvi i problemi non in te stesso facendo riferimento alla tua interiorità, magari con un aiuto esterno ma lo risolvi consumando dei prodotti. Fra questi ci sono i farmaci. Mi ha colpito la dichiarazione di Casalino: se ci fosse una pillola contro l’omosessualità la prenderei. La pillola magica come quella di Mary Poppins. Oggi è stato disincentivato il concetto che il nostro benessere e la nostra gioia di vivere non dipendono da ciò che consumiamo. E si precipitano tutti in farmacia.
(Paolo Vites)
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