C’è un imprevisto filo rosso che lega la Democrazia al Jazz, l’orchestra all’affermazione dei diritti civili del “black lives matter”, le risposte alle diseguaglianze portate dal virus all’equilibrio dell’improvvisazione. E’ un filo che deve esser parso chiaro da subito ad un senatore della musica afroamericana come Winton Marsalis. The Democracy! Suite, pubblicato da pochi giorni, è il nuovo sontuoso manifesto in cui il più militante dei sei fratelli della Louisiana prova a coniugare i linguaggi distanti della politica e dell’arte.
Che le rughe del jazz raccontino un pezzo significativo di storia dei diritti negati e delle disarmonie civili in America è fatto piuttosto noto, ciò nondimeno si fa quasi un salto sulla sedia quando, leggendo le note all’album, registrato in settetto in pieno lockdown al Jazz at Lincoln Center’s, il titolo recita: “Questo è il tempo di una grande lotta per la salute, il benessere, la vita e la libertà”; più un programma elettorale che l’introduzione a una Suite, anche considerato che l’album è nato nelle settimane infuocate degli sparring televisivi e territoriali per le presidenziali. Certo, conoscendo quanto Marsalis abbia da sempre a cuore i temi dell’istruzione, delle eguaglianze sostanziali e delle pari opportunità non sorprende una intro del genere; qui il ragionamento portato avanti è piuttosto lucido: durante la guerra senza frontiere degli Stati al virus che fine fanno i diritti? Perché può tanto figurarsi un rimbalzo positivo per portare la storia un passo più in là quanto consolidarsi il ruolo subalterno degli anelli deboli.
Sì, ma il jazz? Non ha dubbi lo young lion che negli ’80 sfidò corpo a corpo i modernisti e le derive elettroniche nella musica dei “padri”: “il jazz è sempre dalla parte dei diritti civili”, scrive, mettendosi sulla scia di Ellington, Coltrane, Mingus. L’Orchestra è la forma naturale di quella battaglia per la democrazia, dove solo il perfetto equilibrio del tutto alle parti e viceversa può diventare garanzia di credibilità. Non lontano da quello che il nostro Ezio Bosso, pur da altre latitudini, non si stancò di ripetere fino all’ultimo: l’orchestra è la società ideale, dove conta solo il merito e dove il direttore non è il “padrone” ma il responsabile della coerenza espressiva.
Il risultato di The Democracy! sono otto tempi di una Suite compatta e cesellata nell’arrangiamento dei quattro fiati e della sezione ritmica, con una distribuzione bilanciata dei chorus di solos, rigidamente ancorati alla struttura armonica. L’impasto sonoro è brillante e con dinamiche diffusamente gioiose, ideato per affermare la proposta di rivoluzione non violenta di Marsalis; solo raramente, per dire, ricorre a tonalità minori (sempre risolte in maggiore), per sintonizzarsi stabilmente su un mood dixieland e sulle polifonie ricche di contrappunti che hanno reso la musica di New Orleans quasi un genere a sé stante, riconoscibilissimo da poche battute.
Winton Marsalis, ancora una volta, non cerca lo strappo, ma cuce con l’ostinazione dell’alta sartoria ogni arabesco e tessuto si ricolleghi al corso della storia del jazz tradizionale, al grande corso del Mississippi lungo il quale s’è addipanata la forma di musica più popolare e insieme colta che l’Occidente abbia conosciuto dopo l’Opera. Chi, dunque, abbia a cuore i disfacimenti delle forme del blues o delle song a 32 battute, gradisca incursioni nei territori in-out quando non dichiaratamente atonali, non troverà alcuna soddisfazione nell’ascoltare questa Suite per la Democrazia.
Un racconto piano ed appassionato di ciò che siamo stati per costruire visioni di ciò che potremmo essere, un progetto musicale che – comunque la si guardi – conferma il trombettista del Sud (non di rado snobbato dalla generazione dei contemporanei che gli rinfaccia quote di snobismo elitario) come, per dirla così, la mucca nel corridoio di iconoclastie sguarnite di visione.
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