Uberto Siola era all’epoca un vero astro nascente. Architetto dalle idee innovative, uomo di ampie relazioni, giovane preside della facoltà, viene chiamato dal sindaco Maurizio Valenzi nella nuova giunta comunale eletta dopo il voto del giugno 1980. Con lui ci sono l’economista Mariano D’Antonio e il giurista Francesco Lucarelli. Sono gli intellettuali “fiore all’occhiello” del secondo mandato del primo sindaco comunista della città. Prendono il posto degli operai e dei funzionari di partito che erano diventati amministratori nel ’75. Allora il Pci non aveva previsto una così larga vittoria e non aveva pensato ad inserire nelle liste figure capaci di governare.
Il terremoto del 23 novembre aveva però cambiato il corso della storia. Il lavoro di programmazione messo in moto dai giovani professori venne vanificato in quei pochi secondi. L’emergenza terremoto cambiò l’agenda della città e l’arrivo di migliaia di miliardi rese Napoli il luogo di uno scontro violentissimo, combattuto senza esclusioni di colpi, e da cui la sinistra uscì dopo pochi anni duramente sconfitta.
La mattina del 6 giugno 1981 Siola lasciò la sua splendida villa appena ristrutturata sulla cima di Punta Epitaffio a Baia a bordo di un’Alfetta. Con lui, oltre al fidato autista, una collaboratrice e suo marito. Dopo pochi metri una 500 gli ostruisce il passaggio. Scendono tre uomini a volto scoperto armati di pistola. Salgono sull’auto del professore e ne prendono la guida. Mentre viaggiano verso la città sottopongono Siola ad un interrogatorio che viene registrato. Le domande fanno riferimento al piano post-terremoto che pochi giorni prima è stato approvato in consiglio comunale e che prevede la costruzione di 20mila alloggi tra Napoli e l’hinterland.
I rapinatori hanno le idee chiare. Hanno prelevato l’uomo che ha disegnato il piano e che porta la responsabilità di quello che loro considerano “una vera e propria deportazione” dei più poveri dalla città verso la periferia estrema. Arrivati a Cavalleggeri d’Aosta si fermano in una strada appartata, via Divisione Siena. Fanno scendere l’assessore e lo legano ad un cancello, gli mettono al collo un cartello con sopra scritto “contro la deportazione dei proletari” e gli sparano nelle gambe. Gli altri passeggeri vengono liberati e i tre scappano sull’Alfetta. Dopo poche ore l’attentato è rivendicato dalle Brigate rosse.
L’anno prima, il 16 aprile 1980, il Consiglio comunale di Napoli aveva approvato all’unanimità il piano per il recupero delle periferie. Un corposo progetto di riqualificazione delle zone più degradate della città. Ma il piano divenne attuabile solo grazie alle risorse del terremoto. Infatti dopo l’approvazione della legge 219 del 1981 e la creazione del Commissariato istituito con il Titolo VIII, il piano trovò le risorse per avviare la sua concreta attuazione. Ma intorno alla legge e a quale uso farne si era sviluppato in quei primi mesi del 1981 un dibattito molto aspro. Da un lato i giovani intellettuali inseriti da pochi mesi in giunta dal Pci che sostenevano la tesi di un forte decentramento territoriale e puntavano ad un piano dal respiro metropolitano, che decongestionasse la città e valorizzasse l’intera provincia. Dall’altro i vecchi dirigenti cittadini che intendevano concentrare le risorse in città, nei quartieri dov’erano storicamente radicati e dove era concentrata la loro forza elettorale. In questo dibattito si era inserita la sinistra più estremista e, a ruota, il terrorismo. L’idea di trasferire abitanti dal centro storico – il più affollato e degradato d’Europa – in periferia o, ancora di più, nei comuni della provincia venne bollato come una “deportazione”.
Ne seguì uno scontro durissimo, dove i rappresentanti dell’area degli “intellettuali” furono messi in minoranza. Poi l’attentato a Siola determinò l’inevitabile timore di un rischio anche fisico. Ben presto gli intellettuali lasciarono il passo ai dirigenti di partito più coriacei e il piano di ricostruzione fu licenziato con un salomonico compromesso: 13.500 alloggi in città, 6.500 in provincia.
Le Br si erano presentate in città già da qualche tempo. Da metà degli anni ’70 i gruppi armati del Sud avevano agito in coordinamento con le bande terroristiche del Nord. Ma con il terremoto la loro azione aveva ricevuto un nuovo impulso. Il 27 aprile 1981 era stato rapito l’assessore regionale Ciro Cirillo. Il numero due della corrente dei Gava era una figura solo apparentemente di secondo piano. Deteneva i fili di tutta la politica regionale e da un certo punto di vista era l’uomo di potere più importante. I soldi della ricostruzione ne avevano fatto il “playmaker” della vita della regione. A differenza di quanto si era fatto l’anno precedente con Aldo Moro, la Dc si mosse per aprire una trattativa con i rapinatori. Su questo passaggio della vita politica campana si sono scritti libri e si è già detto tutto. Basta fare riferimento alla corposa inchiesta condotta dal giudice Carlo Alemi. Quello che ancora non si è accertato molto probabilmente non lo sapremo mai, perché con la morte di Raffaele Cutolo gran parte di questi segreti sono scomparsi con lui.
Il 24 luglio Cirillo viene rilasciato dai suoi sequestratori. Le Br annunciano trionfanti che è stato pagato un riscatto di un miliardo e 450 milioni (50 milioni spariscono, miseramente, nelle mani dei vari mediatori). Nella trattativa è entrata a pieno titolo la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Alcuni esponenti Dc si sono recati a far visita nel carcere di Ascoli Piceno al boss di Ottaviano per organizzare il rilascio. I soldi sono il frutto di una colletta tra gli imprenditori campani, già beneficiati dal flusso di danaro del post-terremoto. In pochi mesi dunque Brigate rosse, camorristi e uomini dei servizi segreti fanno capire alla politica che dovranno fare i conti con loro, se vorranno spendere quel fiume di denaro.
Né Siola, né Cirillo hanno avuto mai veramente voglia di commentare quello che era accaduto loro in quei mesi. Una pagina durissima della vita della città di Napoli e del nostro paese. Eppure ripercorrendo la rassegna stampa di quegli anni (1981-1982) il giudizio sul piano di ricostruzione post-terremoto gode di grande considerazione. In generale l’opinione di tutti i maggiori urbanisti italiani è molto positivo verso l’operazione di recupero delle periferie. Il progetto prevede l’abbattimento e la ricostruzione di edifici fatiscenti, nuove costruzioni, parchi pubblici, scuole, infrastrutture sociali. Napoli viene indicata come esempio. Il progetto viene esposto con fierezza in molte mostre dedicate al futuro delle città. Se ne esalta la filosofia, la velocità con cui operano i cantieri, il ruolo di alcuni protagonisti “sociali”, come Nanà, un’energica popolana del quartiere Censi di Secondigliano, che assurge in quegli anni a simbolo della partecipazione popolare alla ricostruzione.
Ha scritto di quel piano l’architetto Leonardo Benevolo: “Le realizzazioni concrete, puntuali ed eccellenti, hanno meravigliato il paese. Si tratta del più importante tentativo fatto nell’Italia repubblicana per collocare un intervento pubblico di emergenza in una corretta cornice urbanistica; per collegare tra loro restauri, ricostruzioni, nuove edificazioni. Gli ostacoli incontrati in un ambiente così difficile – il sottosviluppo, la delinquenza organizzata, l’urgenza dei bisogni elementari – accrescono il rilievo dei risultati ottenuti”.
La sinistra si immedesima nel progetto, affida alla conclusione del programma le sue sorti future. È convinta di venire premiata per le sue scelte di sviluppo della città. Ma le cose andranno molto diversamente. Nell’estate del 1983 – complice anche un quadro politico nazionale che sancisce un accordo di ferro tra la Dc di De Mita e il Psi di Craxi – la giunta Valenzi cade perché perde i voti dei partiti minori e si arriva a nuove elezioni il 20 novembre 1983. Con quel voto il Pci comincia il suo inesorabile declino, passando dal 31,72% e 27 consiglieri delle precedenti elezioni al 27% e 23 consiglieri. Una sconfitta netta che determina il suo passaggio all’opposizione. Nel Pci comincia così una riconsiderazione critica sulle scelte fatte. Ricorda il giornalista Giuseppe D’Avanzo qualche anno dopo che nel “Partito comunista si allunga l’indice accusatorio contro quel piano troppo ambizioso, dai tempi troppo lunghi. La gente non lo ha capito e non lo ha votato”.
Da quel momento Napoli avrà giunte di centro-sinistra (Dc-Psi-Psdi-Pri-Pli) fino al 1993, l’anno del dissesto finanziario e del commissariamento del comune. E da quel momento il programma di ricostruzione – già di per se vastissimo – si dilata a dismisura. Infrastrutture, metropolitane, strade e ogni altra opera pubblica entrano nel programma che passa in pochi mesi da un budget di quasi mille miliardi di lire ad uno di più di 10mila. Un fiume impetuoso che per oltre dieci anni alimentò un intero sistema di potere, lasciando sul campo – ahi noi! – opere inutili, danni ambientali e infrastrutture ancora oggi non in funzione.
Nel 1990 la ricostruzione è già uno scandalo nazionale. Giorgio Bocca dalle colonne di Repubblica si rivolge “agli amici del Sud, onesti e colti” e pronuncia un duro monito. “Sì lo so, non è facile fare buona architettura, buona urbanistica a Napoli dove costruisci un quartiere all’avanguardia nel mondo e non è ancora finito che gli abusivi protetti dalla camorra se ne impadroniscono con la violenza, e con la distruzione progressiva degli alloggi e dei servizi”.
Facile profeta! Se oggi andiamo nei quartieri della ricostruzione, fiore all’occhiello della migliore cultura di sinistra, troviamo solo degrado e violenza. Bastano alcuni i nomi: Taverna del Ferro, il Bronx di San Giovanni a Teduccio, il Parco Verde di Caivano, il rione Salicelle di Afragola, la 219 di Melito, accanto a Scampia. Continuano ad essere ricordati esclusivamente per episodi di criminalità brutale, noti per una violenza diffusa, soprattutto minorile, per un degrado ormai inestirpabile. Tutto sta lì a dimostrare che non basta un buon programma, non sono sufficienti i soldi, anche se messi a disposizione in grande quantità. Serve “più amministrazione” che poi vuol dire più servizi, più cultura, più organizzazione.
Serve in poche parole un tessuto democratico che non affidi le sorti del bene comune a pochi illuminati, ma che costruisca dal basso il controllo – arrivo a dire la stessa proprietà – di quanto si costruisce, dalle case ai giardini, dagli ascensori alle attrezzature. Solo così si costruisce una nuova cultura dell’amministrazione in grado di affermarsi su solidi basi, sulla legalità, sul benessere dei più bisognosi, sul rispetto degli altri.
(4 – continua)