La rivolta delle donne Pd non si placa. Con l’avvicinarsi della riunione della direzione, chiesta a gran voce e prevista per giovedì 25, nelle chat più o meno pubbliche si cerca di capire cosa fare. Le parlamentari più attive (Fedeli, D’Elia, Valente, Quartapelle) non sembrano accontentarsi del riequilibrio promesso dal segretario con la nomina di molte più donne tra i sottosegretari e annunciano battaglia sul metodo e sul merito di quanto successo. Sembra comunque che Zingaretti si orienti a chiudere la partita inserendo 7 donne e un solo uomo (il fortunato superstite dovrebbe essere il napoletano Enzo Amendola, a cui andrebbe la delega agli Affari europei).
Le donne del Pd sanno di essere vittime di un problema di leadership. Più banalmente, pur essendo la componente femminile della parte politica che – a parole – dichiara da decenni di perseguire l’obiettivo della “parità di genere”, esse scontano un ritardo drammatico nel promuovere leader, cioè capi donne, perché vittime esse stesse del metodo della “cooptazione correntizia”. In sostanza, un metodo che mette al primo posto l’interesse della propria corrente. Si tratta di un metodo di selezione “dall’alto” (questo “alto” quasi sempre è un uomo) che preferisce premiare la fedeltà sul merito. Per cui nel tempo le occasioni sono state sprecate, i posti sono stati occupati senza brillare, l’appartenenza al gruppo e la fedeltà al capo che le ha nominate è diventata una priorità, le migliori sono state emarginate e alla fine le donne del Pd si sono trovate in un recinto da cui oggi non sanno come uscire.
Però non era mai successo che oltre ai posti ci si rimettesse anche la faccia. Così, mentre partiti insospettabili – come ad esempio la tanto vituperata Forza Italia – portava nel governo Draghi ben tre ministre, i tre posti del Pd sono andati, manco a dirlo, ai tre capicorrente maschi Orlando, Franceschini e Guerini.
Ora, prendersela con Zingaretti appare abbastanza eccessivo. L’unica critica legittima sarebbe se egli avesse fatto la scelta dei tre nomi, ma il segretario del Pd giura di no e di aver lasciato a Draghi ogni scelta finale.
Alla dura critica delle donne, si aggiungono alle preoccupazioni di Zingaretti le continue esternazioni di Goffredo Bettini, il “suggeritore”. Bettini non ha fatto mancare durante tutta la crisi di governo il proprio punto di vista. Si è espresso con chiarezza, rilasciando copiose interviste, promuovendo proprio quelle scelte che – con il senno di poi – hanno rappresentato il piccolo compendio di tutti gli errori commessi dal Pd. Ha lasciato intendere sornione che era l’unico a dialogare contemporaneamente con Grillo, Renzi, Gianni Letta e Conte. Si considerava il mentore di Mattarella, l’ispiratore della grande stampa. La sua ferrea convinzione di giungere ad ogni costo al Conte ter – di cui avrebbe fatto volentieri parte e con un ruolo di un certo rilievo – ha praticamente causato il deragliamento del partito.
Non contento del risultato raggiunto, non ha perso tempo nell’annunciare, sempre via stampa, un nuovo improcrastinabile obiettivo: tenere un congresso straordinario del Pd. Andrebbe ricordato al fine pensatore romano che Zingaretti appena due anni fa ha stravinto le primarie con oltre 1 milione e 300mila voti, ricevendo così un mandato di 4 anni, che gli organismi dirigenti eletti si sono riuniti costantemente in questi mesi e hanno sempre votato a favore delle indicazioni del segretario, e che – a parte Gori e Bonaccini, figure molto coccolate dalla stampa nazionale ma con scarso peso nel partito – la maggioranza è solida e la stessa corrente di minoranza “base riformista” collabora sempre più assiduamente alla gestione del partito.
Il cruccio che da qualche settimana angustia Zingaretti è quello di aver sottovalutato chi preparava la soluzione Draghi. Si arrovella nel dubbio di non aver fatto tutto il possibile (anche mollando Conte?) per tenere in piedi la maggioranza politica. Ma è un dubbio inesistente. Andando a ritroso, cioè ripartendo dalla soluzione finale, appare chiaro che la scelta di aver privilegiato la tenuta dell’intesa con 5 Stelle e Leu è tutto sommato l’unico risultato che conta. Molti, Renzi in testa, miravano a far saltare proprio questa alleanza. Occorre partire da lì e puntare a vincere le prossime elezioni amministrative, senza commettere altri errori grossolani e senza dare ascolto ai soliti “suggeritori”.
Contando sul fatto che da qualche giorno il peso del governo del paese – finalmente – non è più tutto sulle sue spalle.