Ma davvero, come titolava ieri in prima pagina La Verità, “Per chiudere tutto bastava Conte”? E davvero “Il nuovo governo come il vecchio. Richiudono tutto, pochi vaccini” (apertura a caratteri cubitali di Libero) è un paragone che calza? Dipende dal punto di osservazione. E per capirlo basta fare un esempio. Immaginate di trovarvi di fronte a un quadro. Se vi avvicinate troppo per osservarlo, non vi lascerete certo sfuggire il particolare che ha attirato la vostra attenzione, negandovi però la possibilità di ammirare l’intera opera. Per gustarla appieno, dunque, bisogna allontanarsi un po’ e mettersi nella giusta posizione.
Il consiglio vale anche per giudicare i primi passi del governo Draghi sul fronte della lotta alla pandemia. A lume di naso, infatti, soffermandosi esclusivamente sui primi provvedimenti – il decreto già approvato a ridosso dell’insediamento e il Dpcm in arrivo sulle regole dal 6 marzo al 6 aprile – non si scorgono segnali di discontinuità con le misure restrittive e il rigore del governo precedente. Ma sono sufficienti per emettere un verdetto senza appello?
La strategia di Draghi va giudicata in prospettiva. È vero, al di là di quanto annunciato nel suo discorso davanti al Senato, al momento si sa ben poco. Ma il presidente del Consiglio, a differenza del suo predecessore dalle vedute molto spray e poco laser, ha fissato lo sguardo sul punto chiave: senza vaccini (bisogna procurarseli, e subito) e senza vaccinazioni (bisogna procedere in fretta con un piano efficace) non si va da nessuna parte.
Dunque, se aprire tutto non si può (si rischia un “effetto Como”), se cambiare tutto con un colpo di bacchetta magica non è obiettivamente fattibile, se l’esplodere delle varianti fa sì che la strategia “aperturista” debba pazientare ancora un po’, nessun ostacolo a proseguire con le restrizioni, a patto però che si sfrutti questo tempo per gettare le basi della ricostruzione (risposta economica alla crisi) e della vaccinazione (risposta sanitaria). Sembra un dettaglio, ma è ben altro rispetto alla strategia dell’apri-e-chiudi, ondivaga, spesso fuori tempo e senza criterio, che è stata per quasi un anno il marchio di fabbrica del governo giallo-rosso. Con quale risultato? Aver lasciato in eredità a Draghi ritardi da colmare, sbagli da correggere, macerie da ricostruire. Ecco, dalla A di Assembramenti alla Z di Zone, l’alfabeto degli errori del Conte-2.
A come Assembramenti. Vietare gli assembramenti è il mantra degli scienziati, una delle misure chiave per combattere l’epidemia. Invece nei primi giorni le movide non solo non vengono censurate, ma addirittura consigliate: al richiamo dell’aperitivo non si sottrae lo stesso Zingaretti, che poi risulterà contagiato. Purtroppo – è la costante di questi 12 mesi, complice una scriteriata politica di aperture e chiusure – per troppe volte si è chiuso più di un occhio sugli assembramenti (specie senza mascherina).
B come Banchi a rotelle. Il grande flop, il grande spreco. Secondo Matteo Renzi sono costati 461 milioni di euro, secondo la struttura del commissario Arcuri “solo” 119: sta di fatto che rispetto ai 93 euro di costo di un banco tradizionale quello innovativo ne richiede tre volte tanto (274). Dovevano servire a distanziare gli alunni nelle classi, sono miseramente finiti distanziati e segregati in tanti magazzini scolastici, accusati non solo di essere poco funzionali, ma addirittura di provocare il mal di schiena agli studenti (e di essere usati come autoscontro da luna park).
C come Commissario straordinario. “Ai sensi dell’art. 122 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 18 marzo 2020, il dott. Domenico Arcuri è stato nominato Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19”. Così recita il comunicato della Presidenza del Consiglio. Il suo esordio con le mascherine (difficile trovarle) non è dei più trionfali (sono anche in corso indagini giudiziarie sui costi eccessivi sostenuti per l’approvvigionamento di alcuni lotti). In estate, di fronte ai molti problemi legati al ritorno a scuola in sicurezza dopo mesi di Dad, Arcuri pensa di poter dribblare tutto con i banchi a rotelle. Infine, la prova capitale della campagna vaccinale: finché tocca al personale sanitario negli ospedali, tutto fila abbastanza liscio, ma quando il gioco si fa duro (dosi che non arrivano, siringhe sbagliate inviate alle Regioni, logistica da pianificare…) si scopre che un piano sulle vaccinazioni vero e proprio non esiste. Insomma, per il dott. Arcuri, hic Rhodus, hic (non) salta.
D come Dispositivi di protezione individuale. Primavera 2020: mascherine, guanti, gel sono le armi di cui, personale sanitario in testa (in quelle settimane invece si infetteranno molti medici e infermieri), c’è assoluto bisogno per chi sta in trincea contro il virus. Mentre Di Maio si vanta di inviare in Cina un carico di mascherine per aiutare gli amici di Wuhan in difficoltà, negli stessi giorni il paese scopre che non può produrne a sufficienza e deve ricorrere agli approvvigionamenti dall’estero. Guarda caso, soprattutto dalla Cina (e a prezzi non sempre convenienti). A maggio, poi, dopo averle rese obbligatorie, Arcuri lancia l’operazione “mascherine a 0,50 euro” nelle farmacie. Risultato? Introvabili se non quelle con basso potere filtrante…
E come Estate. Luglio 2020: l’Italia entra nel pieno dell’estate con il virus alle corde, sarebbe il momento di dargli il colpo del ko. Alla voglia di vacanza degli italiani gli operatori turistici rispondono con protocolli in grado di garantire la sicurezza, anche in spiaggia. Ma movide e divertimenti di massa (così come i viaggi all’estero) sfuggono alla regola e le discoteche vengono chiuse solo dopo Ferragosto, il caleidoscopico “ultimo weekend di divertimento”. La seconda ondata getta uno dei suoi fiammiferi, che poi in autunno divamperanno in focolai.
F come Frontiere. Inizio gennaio 2020: si sente parlare dei contagi di Wuhan, ma solo da fine mese si decide di bloccare il traffico aereo da e per la Cina. Peccato, però, che si possa atterrare con i voli indiretti, cioè dopo aver fatto uno scalo. Secondo gli esperti, è molto probabile che il virus sia entrato in Italia anche in questo modo. In più, il governo si ostina a non applicare la quarantena a chi arriva dalla Cina. I governatori di Veneto, Lombardia e Friuli e il presidente della Provincia di Trento la chiedono per i bambini rientrati dalla Cina da meno di 14 giorni, evitando così di mandarli a scuola. Il premier Giuseppe Conte risponde: “Ci dobbiamo fidare delle autorità scolastiche e sanitarie, se ci dicono che non ci sono le condizioni per il provvedimento in discussione invito i governatori del Nord a fidarsi di chi ha specifica competenza”.
G come Governo. Davanti a una sfida che richiede decisioni tempestive e scelte coraggiose, il Conte 2 si dimostra debole, diviso, inconcludente. Si perde dietro autocertificazioni che mutano alla stessa velocità del virus, bonus monopattini, regole sui congiunti, chiusure a macchia di leopardo (per dirla con un eufemismo anatomico zoologico)…
H come Hotel. Il governo aveva promesso i Covid-hotel, strutture dove poter trascorrere la quarantena senza contagiare famigliari conviventi. Con il decreto legge 34 la gestione passa dalla Protezione Civile alle Regioni. I primi bandi di Asl e Ats per le convenzioni? Solo in autunno.
I come Immuni. L’app Immuni doveva essere il fiore all’occhiello della “strategia coreana” di contrasto al Covid. Semplicemente non pervenuta.
L come Lockdown. 8 marzo 2020: l’Italia chiude e impara una nuova parola, lockdown. Conte pensa di poter fare come la Cina, ma in democrazia le cose non funzionano come nelle dittature. Gli italiani però fanno la loro parte e i contagi calano. Poi il governo ci riprova, adottando a più riprese brutte copie pasticciate di simil-lockdown. Economia in ginocchio, italiani esasperati. Come ricorda Luca Ricolfi, il lockdown è “sempre un certificato di fallimento dell’azione preventiva”.
M come Mezzi pubblici. I trasporti pubblici e il pendolarismo sono snodi fondamentali per combattere il virus. Subito dopo il lockdown gli operatori del settore lanciano l’avvertimento: dobbiamo farci trovare pronti quando riapriranno le scuole a settembre. Si parla di potenziamento dell’offerta, di orari scaglionati, di capienze ridotte… Parole, appunto. A settembre le scuole riaprono e i bus sono sempre affollati. Un anno dopo l’arrivo del coronavirus ancora niente di nuovo sul fronte dei trasporti.
N come Numeri. Da più di 300 giorni agli italiani viene proposto ogni giorno il solito menu di numeri: casi positivi, ricoveri in ospedale, ricoveri in terapia intensiva, guariti, decessi. E da più di 300 giorni esperti e scienziati (dagli statistici agli epidemiologi) chiedono numeri diversi, più accurati, più aggiornati, meno grossolani per poter assumere decisioni più tempestive ed efficaci. Gli stessi 21 indicatori utilizzati dall’Iss per fotografare il corso dell’epidemia sono considerati nebulosi, miscelati e ponderati da un algoritmo misterioso. Insomma, manca un database con tutti i dati necessari che sia trasparente e accessibile alla comunità scientifica. Inoltre mancano serie indagini epidemiologiche specifiche su singoli ambiti. Ma governo, ministero, Cts e Iss restano tetragoni: ogni giorno la stessa litania di casi positivi, ricoveri eccetera eccetera.
O come Ospedali. A febbraio-marzo 2020, nelle martoriate province di Bergamo e Brescia alle prese con un vero e proprio tsunami, gli ospedali vengono presi d’assalto, è una drammatica Caporetto. Il modello lombardo finisce sotto accusa. Sei mesi dopo, però, una seconda ondata, seppure meno devastante, s’abbatte sull’Italia. Nel frattempo, nonostante le promesse della primavera precedente, il governo non ha fatto nulla per dare ai medici di base gli strumenti per affrontare sul territorio le infezioni. Per le ambulanze del 118 è un viavai continuo verso i pronto soccorso, così ospedali e terapie intensive, un po’ ovunque, finiscono sotto stress. E i nuovi posti in terapia intensiva? I bandi si sono chiusi solo il 12 ottobre.
P come Piano pandemico. L’ultimo è stato redatto nel 2006, governo Berlusconi, per mano del ministro Sirchia. Da allora, nonostante le sollecitazioni dell’Oms, nessuno si è più preoccupato di aggiornarlo. Quando scoppia l’epidemia, il governo Conte cerca alla bell’e meglio di correre ai ripari, ma si perde tempo prezioso.
Q come Quanto dura l’emergenza. Di solito un’emergenza – lo dice la parola stessa – ha breve seppur drammatica durata, il tempo appunto di affrontarla e possibilmente risolverla. Il governo Conte – volutamente? Il sospetto a volte affiora – l’ha resa invece endemica. Lo stato di emergenza viene annunciato il 31 gennaio 2020 e, mentre in tv Conte si affanna a rassicurare che l’Italia è “prontissima” a combattere il virus, per tre settimane, anziché intraprendere “misure tempestive e straordinarie”, non viene fatto nulla, finché a Codogno, il 22 febbraio, viene scoperto il paziente 1. Tre settimane di immobilismo. Ma da quel giorno lo stato di emergenza s’incista nel cuore del paese, mettendo radici.
R come Regioni. Ci hanno indubbiamente messo del loro, ma di certo i litigi, gli sgambetti, le accuse e controaccuse con il governo non sono uno spettacolo edificante. Nel bailamme di norme e battibecchi la gente è disorientata e l’efficacia delle misure ne risente. Conte, poi, più volte annuncia, promette e concorda con i governatori interventi che poi, nel cuore della notte, vengono disattesi o modificati.
S come Sequenziamento. Le varianti del Covid spaventano. Ma a spaventare gli italiani dovrebbe essere il fatto che pochi in Italia si mettono a cercarle. In ottica di sorveglianza epidemiologica l’attività di sequenziamento del virus dovrebbe essere una delle prime risposte da attivare: l’Italia, e solo dopo un richiamo dell’Oms, vi provvede solo nel gennaio 2021, istituendo il “Consorzio italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di Sars-CoV-2 e per il monitoraggio della risposta immunitaria alla vaccinazione”. Ritardo inammissibile. Basta un numero per capirlo: secondo dati pubblicati dall’Oms, su 10.022 genomi di Sars-CoV-2 sequenziati, provenienti da 68 Paesi, il contributo dell’Italia ammonta a soli 44 campioni.
T come Tracciamento. È la grande sconfitta del governo Conte 2: tracciare e testare è l’unica arma vincente contro la pandemia. Ma i tracciatori sono pochi, i tamponi vengono processati a rilento e il virus galoppa. Se la prima linea cede, le difese crollano: quanti italiani sono entrati in contatto con il Covid? Ancora oggi nessuno lo sa.
U come Uomo solo al comando. Giuseppe Conte per gli italiani diventa Mr Dpcm. All’inizio, il premier sfrutta la sua immagine rassicurante, gli italiani gli danno la mano, lui piano piano si prende il braccio. Sforna Dpcm in barba alla Costituzione e in piena solitudine: non ascolta nessuno, nemmeno i partiti che lo sostengono. A volte non ascolta neppure gli scienziati di cui, pure, dice di seguire le indicazioni. I Dpcm si perdono così in arzigogoli normativi che a volte sfiorano il ridicolo, spesso l’inefficacia, sempre la confusione. Ad un certo punto, si può andare tutti al supermercato, in tanti sugli autobus, due alla volta nei negozi, nessuno in chiesa per la messa.
V come Vaccini. L’Italia non ha un piano serio di vaccinazioni, tanto che al momento (fonte Il Sole 24 Ore) “più di una dose su quattro (il 30%) rimane nei frigoriferi”. Nessuno ci ha pensato a predisporlo. Ma il problema ha radici lontane. Come ha spiegato Silvio Garattini, farmacologo di fama mondiale: “Molti Paesi si sono messi al lavoro a marzo dell’anno scorso, quando le prime ricerche su un possibile vaccino contro il nuovo coronavirus erano appena cominciate. In Italia invece si è perso tempo e ora paghiamo le conseguenze. Il problema è sempre non averci pensato prima. Sapevamo fin da marzo che ci sarebbe stata in ballo la scoperta e la produzione dei vaccini, però non abbiamo fatto niente. Come invece hanno fatto altri paesi che hanno attivato dei loro centri per la produzione”. Si chiama mancanza di programmazione, che ora costringe Draghi a rincorrere.
Z come Zone. Sono da intendere, in primo luogo, come le zone rosse, colpevolmente mancate, di Nembro e di Alzano Lombardo, nella bergamasca, a febbraio 2020. E poi, come le zone colorate. Appesi come siamo all’indice Rt (che è come andare incontro all’epidemia guardando lo specchietto retrovisore), il governo si è inventato il semaforo del Covid: in base alla gravità della situazione le regioni finiscono in zona gialla, arancione o rossa. Agli statistici il sistema piace poco perché poco granulare (sarebbe il caso di applicarlo almeno alle province), agli epidemiologi pure, perché scatta un po’ a babbo morto, come ha raccontato al Sussidiario Cesare Cislaghi: “Quando tutte le regioni sono state inserite in zona gialla, l’indice Rt scendeva, mentre l’RDt saliva, tant’è vero che avevo messo in discussione tale scelta. Poi, quando le misure sono state inasprite, l’indice RDt mostrava che i contagi non stavano più risalendo. Insomma, il gap di 10 giorni era molto evidente”.
Sì, siamo ancora appesi all’indice Rt, cioè Reazione Tardiva. Come la strategia del Conte 2.