C’erano una volta i “bottegologi”. Erano i giornalisti specializzati nelle vicende interne al Pci, dal nome di “Via delle Botteghe Oscure”, dove era la storica sede comunista. I loro epigoni di oggi, i “nazarenologi”, si preparano a mesi di superlavoro. Perché, dopo i 5 Stelle che sono esplosi un minuto dopo la fine della crisi di governo che ha portato al governo Draghi, è il Pd il prossimo partito a finire sulla graticola.
La resa dei conti è solo all’inizio, perché un grande partito strutturato ha tempi lenti rispetto a una formazione gassosa, come i grillini. Ma il redde rationem sembra inesorabile. Il dato di partenza è che la linea politica Zingaretti-Bettini (“O Conte ter o voto”) si è rivelata una fallimento clamoroso. Il Pd non ha avuto né il Conte ter, né le elezioni. Ha pure dovuto ingurgitare in silenzio la più indigesta delle soluzioni, e fare pure l’applauso a Mattarella che l’ha imposta.
Al problema di linea politica si sono sommati quello di genere (nessun ministro donna) e quello territoriale (tutti ministri del Nord). Si è scoperchiato il vaso di Pandora del tutti contro tutti, si preannuncia una fase agitata e dal finale imprevedibile. Il primo a finire sul banco degli imputati il segretario Zingaretti, le cui intenzioni risultano incerte, al punto che circolavano voci su possibili dimissioni proprio nei giorni convulsi della designazione dei sottosegretari. Ma, anziché la segreteria, secondo alcuni scenari Zingaretti potrebbe lasciare la Regione Lazio per candidarsi a sindaco di Roma. La saldatura con M5s ci sarebbe, ma a spese di Virginia Raggi, perché alla Regione potrebbe andare Roberta Lombardi, acerrima nemica interna della sindaca della Capitale, e prossima – pare – a entrare proprio nella giunta guidata dal segretario democratico. Qualche mese in più, dato dal quasi certo rinvio delle amministrative a settembre-ottobre, sarà perfetto per rendere possibile l’operazione.
Basterà questa mossa del cavallo per placare le bande interne al Pd, l’una contro l’altra armata? Niente affatto, come non basterà la nomina di una vicesegretaria donna (Cecilia D’Elia, Valeria Fedeli o Debora Serracchiani), anche perché Andrea Orlando non ha alcuna intenzione di mollare l’incarico, nonostante l’ingresso nel governo. In più, la scelta di campo di Giuseppe Conte, che si pone di fatto alla testa dei 5 Stelle, complica ulteriormente le cose: il “punto di equilibrio”, il “riferimento dei progressisti”, a cui si è portato acqua per un anno e mezzo, ora è diventato il capo di un partito concorrente, anche se potenziale alleato. Un capolavoro di masochismo, per il Pd.
L’assemblea del 13 e 14 marzo sarà solo l’inizio di un processo che porterà probabilmente a un congresso, sollecitato da molti, in primis dalla corrente di Base Riformista. In partenza sembra un congresso difficile, di scontro, senza che sia alle viste una possibile sintesi. Un congresso da fare mentre il governo Draghi imprime una svolta nel merito e nel metodo, in direzioni che potrebbero essere non sempre gradite. O, meglio, a una parte dello stato maggiore dem, visto che l’ala che governa i territori sembra accogliere con favore il cambio di passo in termini di gestione della pandemia: lo dimostra il sì di tutti i governatori al nuovo Dpcm, e il clima nuovo che si è respirato nella trattativa fra Stato e enti locali per le norme che varranno sino a Pasqua. E proprio un altro governatore, Bonaccini, sembra essere uno dei potenziali candidati alla segreteria del Pd.
Draghi, che forse non si attendeva tante difficoltà dalla gestione della pandemia (campagna vaccinale da ripensare completamente), ha una carta potente da giocare nelle prossime settimane: quel decreto “Ristori 5”, che Conte non è riuscito a varare e per il quale il Parlamento ha già votato 32 miliardi di scostamento di bilancio. Nella stesura del provvedimento i partiti avranno poca voce in capitolo, ma una leadership delegittimata peserà pure di meno, con il rischio che la bilancia penda a favore delle istanze di Salvini e soci.
La debolezza del Pd rischia di diventare un problema serio anche per Draghi, perché la sua forza starà nel tenersi in equilibrio fra gli azionisti della sua strana maggioranza, nessuno dei quali detiene la golden share, cioè ha i numeri per determinare la caduta del governo. Un azionista troppo debole perché dilaniato dalle lotte intestine, potrebbe rendere tutto più difficile.