“Dei vizi e delle virtù” (Rizzoli) è il titolo del nuovo libro-intervista di Papa Francesco con don Marco Pozza in uscita oggi. Ne pubblichiamo un’anticipazione, per gentile concessione dell’editore.
L’ultima immagine di sé che ricorda è con una pietra in mano. Davanti c’è una pattuglia della Polizia di Stato, dietro ci sono i vetri appena frantumati delle finestre di una casa, delle portiere di un’automobile. Guarda il male, il male ti si appiccica si sente cantilenare in quelle colline di bollicine dorate: è pur sempre terra del Prosecco Doc. Quella casa è casa sua, l’auto è la locomozione della madre e del padre suoi. Tutto ridotto in frantumi: “Ero a piedi, scalzo, sfinito dal vivere. Cercavo di scappare in una comunità, ero in uno stato confusionale. Mi hanno ammanettato, sbattuto in galera. Condannato”. A farlo arrestare sono gli stessi che l’hanno fatto venire al mondo: “A denunciarmi è stato mio padre e mia madre: minaccia e aggressione nei loro confronti, ecco l’accusa”. Nell’altra cella, quella di fronte, un napoletano ha fatto scrivere, sopra la finestra, ciò che diceva sua mamma, donna meridionale e spicciola: ch’è meglio il rumore delle sbarre di quello delle campane. “Avevo cercato di scegliere il male minore – si confessa senza voler confessarsi –. Non mi accorgevo che era pur sempre un male”. È lui: il male mangia seduto vicino a noi, dorme nel nostro stesso letto, ci tira su le coperte e ci chiede come stiamo, se può esserci utile in qualcosa.
Peccato sia come i pipistrelli: rifugge la luce del giorno.
Irradia di luce la sera,
fa sorgere oltre la morte,
nello splendore dei cieli,
il giorno senza tramonto (Inno dell’Ora Sesta)
Il bilancino di precisione, la marijuana, l’eroina, le pastiglie, la cocaina, tutti gli attrezzi necessari per la lavorazione, l’assunzione: “Il mio appartamento era diventato un laboratorio artigianale di crack. Era il ritrovo di gente malfamata, un via-vai continuo in tutte le ore, giorno e notte. I vicini sono andati fuori di testa”. Nessuno può farti più male di quello che tu ti metti in testa di fare a te stesso: la persona diventa cosa, la vita diventa un oggetto, la casa che somiglia alla cella ancor prima d’entrare in galera. Questa sì che (non) è vita: guarda il male e ti si appiccica. “E tutto sai com’è iniziato? – si fa le domande e si pone le risposte –. Tenendo nascosta la mia omosessualità. La vergogna mi ha ficcato all’inferno, dentro questo inferno di non-vita”. A turbare non è il tradimento o l’infedeltà, ma il non riuscire più a fidarsi di qualcuno. Di te stesso: “Sprofondavo sempre di più, Il crack è stato il colpo finale”. Pinocchio è finito dentro il ventre del pescecane.
La sua cella è spartana: pochi oggetti, per di più scalzi, rudimentali, scarni. Sono l’avamposto ultimo dell’infedeltà: “Più che tradire i miei genitori ho tradito me stesso – la sincerità con cui ne parla aumenta la mia stima verso di lui –. La cosa più amara non è tradire qualcuno ma se stessi”. Maltrattarsi senza farsi alcun riguardo, guardarsi allo specchio e scoprire d’essere diventato invisibile, il marchio della non-vita. L’agguato del male: “Il male mi è entrato dentro quando mi sono sentito incompreso, perduto, senza più una ragione in tasca per vivere; senza poter essere qualcuno, anche minimo, per qualche altro. Mi sentivo come in una bolla: il mondo non mi vedeva più, ero diventato invisibile”. Non del tutto, però: “Io sentivo d’esserci ancora un po’, però”. Tradirsi con se stessi, accade.
Mentre parla, qualche tic disturba la narrazione. Si stacca un po’ da me, lo lascio staccarsi da ciò che l’opprime. Beve un caffè, poi accende la sigaretta, gli altri tre giocano a carte mentre guardano, in contemporanea, i programma in tv e ascoltano le ultime canzoni che RTL manda in sottofondo: è l’arte di esserci sempre e comunque, sempre sul pezzo. Eccetto quella volta, quando era la vita a chiedere d’esserci. Lei che, sola, ha il potere di dirti: “Stai qui, è il tuo posto”.
Nascere è giorno di buon–compleanno, scoprire il perché si è nati è giorno di buona-vita: un giorno, poi, si morirà come si è vissuti. Anche il morire dipende dal vivere, non viceversa: “Nessuno poteva immaginare la mia sofferenza. Io mi son nascosto, ho approfittato della situazione tenendo tutti all’oscuro di tutto e ritrovandomi sprofondato nel male, nelle sabbie mobili, incapace di reagire”. Il come si possa vivere così è logica conseguenza: “Preferivo che chi mi vedeva dicesse che ero solamente un tossico piuttosto che venissero a conoscenza della mia omosessualità”. Lo lascio parlare, è un fiume che ha rotto gli argini, o un salmone che sta risalendo a nuoto la corrente. Su-su, fino alla sorgente: “Da bambino era un tipo vivace, casinista, mi piaceva scherzare, i miei compagni mi cercavano perché stavano bene in mia compagnia”. Si ferma, risale ancora un po’ la corrente della memoria, si ferma a bordo fiume: “I miei genitori ce l’hanno messa tutta per crescere me e mia sorella nel mondo giusto”. Poi, prestissimo, l’annuncio dell’uomo a se stesso: “A dodici anni ho messo il piede nell’inferno: tutto il resto è stato passeggiare tra quelle strade lastricate di buoni propositi”.
Li guardo mentre giocano a carte: è la nostra gente, in gergo gli “avanzi di galera”. Più che avanzi sono tutto ciò che resta quando tutti hanno mangiato, le cose più piccole. Questa galera è l’avamposto ultimo dei caduti-ignoti, l’estremo distributore di senso (quando si riesce a trovarlo) di una società crocifissa: la prossima fermata è quella che porta dritta al camposanto, non ci saranno soste intermedie. Da queste parti scoprire un senso è ritrovare un briciolo di fede, pre-gustare qualcosa che ancora non c’è. È professare fede certa nell’ultima chiave del mazzo: è sempre lei ad aprire la porta. A far accadere il miracolo: fermarsi anche solo un’ora prima, è perdersi l’appuntamento con la bellezza.
Qui dentro, quando cala il sole dietro queste sbarre arrugginite, i matti sono già sulla branda, mentre i poeti-maledetti iniziano a vivere. La sera è la loro ora, l’ora delle occasioni, del coraggio, dell’impossibile che si apre una strada dentro la terra dell’impossibile. Dove non c’è più niente si potrà ancora fare tutto, tanto: “I problemi sono solo delle opportunità con delle spine sopra” (H. Miller).
Nel paese delle spine, le rose avranno modo di sentirsi protette dai bruchi.
Ritorna a sedere, il volto leggermente più rilassato. Qui fede è un termine che la religione spartisce con l’umanesimo. “Credere” è verbo di appartenenza più che di formule, sapersi di qualcuno è questione d’affetto non di dogma, credere-a è sapersi non più soli in questo deserto ferroso. “La notte, quando ero fuori, non dormivo più, piangevo dannatamente in silenzio senza farmi sentire. Anche questa non era vita”. Le lacrime, invece, da qualche parte sono litanie laiche, le ultime orazioni quando l’uomo ha perso la voce, i ritornelli responsoriali di una messa senza più misteri da scandagliare. «Sai, è brutto da dirsi, ma è giusto da ammettere: qui dentro l’incontro più bello che ho fatto sinora è stato incontrare me stesso. Non pensavo di valere così tanto, d’essere un uomo così – la voce è bambina da quant’è pulita –. Sento di valere, ho fame di vita: basta galleggiare”.
Sottomettetevi a Dio;
resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi.
Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi.
Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà (Gc 4, Ora Nona)
La trasgressione è l’altro nome dell’infedeltà: il viziaccio nato apposta per mandare in malora la virtù piccolina della fede, ch’è sempre sul punto di crollare e di rimettersi in sesto. Entrati in galera – qui il passaporto è di ferro e cemento – la vera trasgressione sarà quella di mostrarsi davvero per come si è, senza far uso dei filtri per ritoccare le istantanee dell’esistenza: “Quando oggi ci penso – penso non avrebbe mai giurato d’arrivare così in cima nel risalire la corrente – la vera trasgressione è stata quella dei miei. Per una madre e un padre andare a chiedere d’arrestare il proprio figlio temo sia la professione di fede più bella in ciò che, comunque, potrà ricominciare”. Piange, ha gli occhi lucidi, ci sta tutto.
Una trasgressione non si annuncia, tutti dicono d’essere trasgressivi: “Nel momento in cui ho spinto contro il muro mia madre, le ho lasciato un ematoma attorno al collo. Non posso dimenticare (la memoria lo crocifigge di rimorsi) quel volto che mi guardava. Era l’annuncio di una privazione, omicidio premeditato dell’amore nostro: ‘Ho perduto mio figlio, oggi!’ giurò con lo sguardo”. Dire ch’è tutto finito al novantesimo sono le regole degli uomini: a seguirle, però, si rischia di perdere tutto il divertimento degli ultimi attimi, dei supplementari. Quando basterà un contropiede per ribaltare una partita che sembrava perduta: “Mi han sbattuto qui in carcere: li ho stra-maledetti, giurai che sarebbe finita per sempre tra me e loro. Pensavo fossero degli infami per avermi fatto questo”. Il male ha le sue ore: tira giù le corde, suona le campane, sveglia la vallata. Anche il bene ribatte le sue ore: bussa alla porta, tocca una spalla, ti prende per mano. È l’ora esatta: “Invece oggi, se sono vivo, è grazie a loro: a tradire sono stato io. Il loro, che pensavo essere un tradimento, è stata l’unica risposta possibile al mio tradimento. Rischiare il tutto per tutto, pur di non rinnegare la fede nel figlio”.
Risultare vincitori è vivere la tentazione di farsi persecutori: i traditori, però, vanno combattuti non traditi. L’uomo è una città eternamente in stato d’assedio: “Qui dentro mi sono ritrovato a vivere con bestie libere da ogni riguardo, anche con angeli liberi da ogni pensiero. Per tanto tempo sono stato come un sacco di immondizie, un materasso di gomma piuma sempre pronto a traslocare. Foto, impronte digitali, perquisizioni. Inviti ad allontanarmi perché omosessuale, uno sempre a rischio di incolumità”. Sempre sull’attenti: “È vero: il posto è orribile. Ce n’è uno ancor più orribile, però: abitare sotto due metri di terra. Sono andato vicinissimo: chi pensavo mi avesse tradito invece mi ha salvato”.
Tra il vizio e la virtù, ci sono operai in corso d’opera.
Al male ci si crede immediatamente.
Al bene si fa sempre fatica a credere, anche quand’è evidente.
È un viziaccio capitale giurare di amare Dio così.