Per la fornitura di vaccini Austria e Danimarca (assieme ad altri paesi del cosiddetto “First Mover”, un’alleanza di Stati comprendenti anche Grecia, Repubblica ceca, Norvegia, Israele, Singapore, Australia e Nuova Zelanda, tutti insofferenti alla lentezza di Oms e Ue nella risposta all’epidemia) “in futuro non faranno più affidamento sull’Ue e, insieme a Israele, nei prossimi anni produrranno dosi di vaccino di seconda generazione per ulteriori mutazioni del coronavirus e lavoreranno insieme alla ricerca di opzioni di trattamento”. Con queste parole, pronunciate alla vigilia della sua visita, in programma oggi, a Gerusalemme, il cancelliere Sebastian Kurz ha annunciato quello che tutti i media hanno subito ribattezzato “lo strappo” dell’Austria.
In realtà, i verbi usati da Kurz sono tutti al futuro, segno che la mossa non è poi così imminente. Innanzitutto, perché lo stesso Israele, paese benchmark sul fronte delle somministrazioni, ancora non dispone di siti produttivi propri e l’operazione di adattamento o allestimento di nuove fabbriche, benché gli israeliani ci abbiano abituato a performance record in molti campi, richiedono comunque mesi, se non addirittura anni. In secondo luogo, perché la scelta è stata suggerita da alcuni esperti, secondo i quali, non ora, ma “nei prossimi anni sarà necessario vaccinare i due terzi della popolazione ogni anno, ovvero più di sei milioni di austriaci”.
A onor del vero, lo stesso Kurz ha riconosciuto “in linea di principio” la correttezza della politica comune di approvvigionamento dell’Ue, tenendo a precisare che le sue critiche erano rivolte soprattutto all’Ema, “troppo lenta” nell’approvare i vaccini, e alle “”strozzature nella produzione delle dosi”.
La slabbratura con l’Europa è marcata nei toni e nelle intenzioni, anche se dal punto di vista formale Kurz non fa altro che “approfittare” di una breccia esplicitamente prevista dai contratti, in quanto è del tutto prevista la possibilità, per i singoli Stati, di avviare colloqui con altri paesi o case farmaceutiche al di fuori del pacchetto di produttori con cui Bruxelles ha firmato i suoi accordi.
La domanda a questo punto è: l’Italia farebbe bene a seguire le orme dell’Austria?
Non c’è dubbio che la virata di Kurz non è altro che l’ennesima conferma di quanto in Europa continui a crescere sempre più la schiera di coloro che non sono soddisfatti di una politica dei vaccini partita tra mille errori e ritardi e che ancora oggi fatica a decollare, zavorrata da scelte negoziali lacunose se non improvvide. La stampa tedesca non esita a far piovere giudizi impietosi sulla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e lo stesso presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, nell’ultimo vertice europeo della scorsa settimana, ha spronato con forza la Ue a fare meglio e più in fretta.
Più evidente invece, è la smagliatura con l’Agenzia europea del farmaco, il vero bersaglio di Kurz. Questa sì carica di rischi e incognite: senza l’autorizzazione dell’Ema, che valore “legale” avranno i vaccini prodotti o importati in Austria e in Danimarca? E se si arrivasse al “passaporto vaccinale”, austriaci e danesi avranno in mano un attestato valido da poter esibire per entrare o viaggiare negli altri Paesi dell’Unione?
Che sia urgente e doveroso andare a caccia di nuovi vaccini per contrastare più celermente ed efficacemente un’epidemia e le sue varianti con le quali dovremo fare i conti ancora a lungo è opinione condivisa da tutti. Il problema numero uno, in Europa e soprattutto in Italia, è avere i vaccini per poter vaccinare. Visto che in giro per il mondo – come ha ricordato al Sussidiario il fondatore dell’Istituto Mario Negri, Silvio Garattini – ci sono 60 candidati vaccini, “dobbiamo avere la possibilità di prenderli da chi li produce”. E’ l’imperativo del momento. Ma – ha aggiunto Garattini – “ricordiamoci che è necessario aspettare il processo di approvazione e quindi che lo potremo utilizzare (il riferimento in questo caso è allo Sputnik V, ma vale per ogni altro vaccino eventualmente opzionato fuori dagli accordi Ue, ndr) solo quando l’Ema lo avrà autorizzato. Però gli accordi si possono fare prima, si possono prenotare le dosi. Altrimenti ci saranno altri paesi, più tempestivi, che lo faranno prima di noi. E chi prenota per primo, chi paga per primo avrà la precedenza”.
L’Ema, dunque, resta uno snodo ineludibile e la decisione dell’Agenzia di accelerare i tempi di autorizzazione, pur garantendo con la massima scrupolosità gli standard di qualità, efficacia e sicurezza dei vaccini, va nella giusta direzione. In questo senso, più che la fuga in avanti di Kurz, è più opportuno segnalare la bontà del cambio di passo, radicale, del governo Draghi proprio sul piano vaccini. Archiviata con un paio di tagli netti l’era Conte-Arcuri – annunci declinati al futuro, scelte incomprensibili e costose come le primule, assenza di una vera pianificazione logistica della campagna vaccinale… -, ora si lavora su uno spartito più armonico e sinfonico: grazie al nuovo Commissario per l’emergenza Covid, il generale Francesco Paolo Figliuolo, al nuovo capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, e al ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, si è messa in moto – finalmente, dopo mesi di colpevole e ingiustificato immobilismo – la macchina per arrivare a una produzione nazionale di vaccini.
Proprio ieri si è tenuto un vertice al Mise, presenti anche il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, e quello dell’Aifa, Giorgio Palù, in cui si è valutata “la possibilità di sviluppare un polo nazionale pubblico-privato per la produzione di vaccino che garantisca l’Italia non solo in questa fase emergenziale. Si sta procedendo a individuare quelle aziende che, dal punto di vista tecnologico e infrastrutturale, potrebbero essere in grado di produrre vaccini in Italia in un ristretto arco temporale”, calcolato in circa 4-6 mesi.
Non solo: all’interno del “Dl Sostegno”, a cui sta lavorando il governo si fa strada l’ipotesi di finanziare con 2 miliardi la campagna vaccinale, per finanziare un “pacchetto salute” in quattro direzioni: vaccini, antivirali, trasporto e somministrazione degli antidoti.
E oggi Giorgetti incontrerà il commissario Ue al Mercato interno, Thierry Breton, dal 2 febbraio a capo della Task Force europea per aumentare la capacità dell’attuale produzione dei vaccini, al quale verrà confermata l’intenzione dell’Italia di partecipare al piano Hera Incubator per la piena autonomia produttiva di vaccini a livello europeo, come chiesto proprio da Draghi, da raggiungere entro i prossimi 12-18 mesi.
Avviata la via italiana al vaccino e ribadita la volontà di spronare l’Europa a fare presto e meglio, l’Italia potrebbe mettere in campo una terza mossa: andare subito a caccia di nuove dosi da opzionare, aprendo ulteriori possibili canali di approvvigionamento, anche per l’Unione. Aspettando l’Ema, ovvio, a cui chiederà di non essere come Godot.
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