Nicola Zingaretti non è che una delle vittime della prima crisi politica veramente europea. E le sue stesse chance di restare alla guida del Pd possono risultare alla fine più legate agli sviluppi dei sommovimenti Ue in corso fra Stati e macropartiti. che all’imminente “conta” in programma al Nazareno.
Al centro di un’autentica “crisi di governo” c’è la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Nelle ultime ore l’esponente tedesca del Ppe ha subito colpi pesanti su entrambi i versanti istituzionali della sua legittimazione: il Consiglio dei 27 Capi di Stato e di Governo e la maggioranza politica all’Europarlamento. La telefonata di Mario Draghi a von der Leyen, l’altra sera, ha avuto le sembianze di una pubblica strigliata: finora inimmaginabile da parte di un qualsiasi Premier italiano, oltretutto nei confronti di un altissimo eurocrate di passaporto tedesco. E Draghi ha puntato il dito non solo sui fallimenti di Bruxelles nella campagna vaccinale, ma anche – si è appreso – sui deficit nella preparazione della “macchina Recovery”.
Giusto ieri il Financial Times ha dato rilievo all’emergere di un asse italo-francese fra Draghi e il presidente Emmanuel Macron nel visibile smottamento dell’eurocrazia e nel progressivo vuoto lasciato al centro dell’Europa dall’incerta transizione politica in Germania. Chi sarà il successore di Angela Merkel dopo le elezioni generali di settembre; e con quale coalizione? Anzi: chi sarà il candidato-cancelliere Cdu? Se i due importanti regionali voti previsti domenica 14 marzo in Baden Wurttemberg e Renania-Palatinato dovessero avere esiti negativi per il partito di Angela Merkel, potrebbero travolgere in culla la leadership di continuità di Armin Laschet. E secondo gli analisti questo rafforzerebbe le aspettative di ulteriore ascesa dei Verdi: con esiti oggi imprevedibili sulla futura governance a Berlino.
Ma von der Leyen – indebolita in patria per un’inchiesta sugli appalti della Wehrmacht – è finita in virtuale minoranza anche a Strasburgo. L’uscita dal Ppe di Fidesz – il partito di maggioranza ungherese guidato dal premier Viktor Orban – ha riacceso i fari sugli equilibri al Parlamento Ue. Che è ancora lontano dal decidere sulla composizione della Commissione (è tuttora competenza del Consiglio intergovernativo), ma ha potere di sfiduciare in anticipo i membri designati nell’esecutivo: è accaduto anche all’indomani delle nomine dell’estate 2019, perfino alla commissaria francese Sylvie Goulard.
Allora anche “Orsola” ha fatto molta fatica ad ottenere la fiducia dalla “sua” maggioranza (popolari, Pse, liberaldemocratici): l’ex ministro della difesa della Germania era sgradita anzitutto ai socialdemocratici tedeschi. Per contrastare Verdi e sovranisti – entrambi in ascesa all’euro-voto 2019 – a von der Leyen sono stati fondamentali gli improvvisati voti “responsabili” dei 14 eurodeputati M5S: rimasti tuttavia “cani sciolti” a Strasburgo (4 sono passati a Verdi, 10 sono in colloqui per passare al Pse, ma gli sviluppi in Italia non aiutano). La “coalizione Orsola” è nata quindi in Europa perché essa propiziava il ribaltone di governo dell’agosto 2019 in Italia.
Ma quell’esecutivo – il Conte-2 benedetto da Romano Prodi nel nome di von der Leyen – adesso è caduto. Un mese fa a nulla sono valsi i tentativi del Premier di raccattare voti “responsabili” nel Parlamento italiano, come fece con successo “Ursula” con gli eurodeputati grillini. Dal giorno delle dimissioni di Conte, è stato invece M5S a implodere e franare, contagiando infine anche il Pd. E non può stupire che la “maggioranza Orsola” sia andata contemporaneamente in crisi in Italia e in Europa: in entrambe le sedi la spinta quasi esclusiva è venuta dall’ansia di di contenere e contrastare l’ascesa di forze politiche (la Lega piuttosto che Fidesz) respinte a priori come indegne di partecipare al governo della democrazia europea. Meno di due anni dopo quel progetto politico non ha più i numeri, mostrando la sua inconsistenza nella capacità di governo della crisi-Covid.
In Italia la doppia crisi – politica e di governo – ha avuto uno sbocco rapido, concreto e chiaro: è stata chiamata a guidare l’esecutivo una figura altamente autorevole (anche in Europa) che ha ottenuto la fiducia parlamentare di un vasto arco di unità nazionale. Sarebbe una prima assoluta, ma non sarebbe affatto sorprendente se alla fine del 2021 – dopo le elezioni tedesche – anche la Commissione Ue fosse oggetto di un completo rimpasto: con un nuovo doppio vaglio, sia da parte del Consiglio Ue che da parte del Parlamento. Perché la Lega italiana o i Verdi tedeschi devono restare fuori dalla stanza dei bottoni di Bruxelles perché non fanno parte di un’autonominata “maggioranza legittimista” non più tale nei numeri? Perché a capo della Commissione dovrebbe rimanere un’ex ministra tedesca, figlia di una coalizione politica in via di probabile superamento in Germania, non votata nel 2019 neppure dalla sua cancelliera?