“Un paese ci vuole. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Così Cesare Pavese fa dire ad Anguilla, il protagonista de La luna e i falò, il trovatello, che dopo anni vissuti da emigrato, torna al suo paese nelle Langhe tra malinconia per ciò che non trova più e inesausto bisogno di radici.
Un paese ci vuole, sapere che c’è una terra di cui puoi dire che le appartieni, una storia, dei rapporti da cui sei definito. Nell’insicurezza di questi tempi, nel silenzio ritornato in tante delle nostre città, mentre siamo sempre più in preda a disagi e sofferenze, con un po’ di realismo stiamo smettendo di aspettare il ritorno a “come era prima”, giusto un anno fa, e, Dio volesse, forse con un briciolo di curiosità allunghiamo lo sguardo per sbirciare come sarà il futuro, sicuramente diverso, ma non necessariamente ostile. Sarà un futuro in cui, se qualcosa avrà tenuto, saranno proprio i legami. O meglio, ci salveremo, salveremo la nostra umanità, il nostro cuore, se avremo vissuto con la consapevolezza di avere un paese, di essere “di” qualcuno.
“Non siete soli!” ha ricordato con forza in Iraq il Papa al popolo cristiano che lo aspettava a Qaraqosh. “Questo è il momento di risanare non solo gli edifici, ma prima ancora i legami che uniscono comunità e famiglie. Vi incoraggio a non dimenticare chi siete e da dove venite! A custodire i legami che vi tengono insieme, vi incoraggio a custodire le vostre radici!”. Il Papa è andato in Iraq per ridire a quel popolo, a ogni persona che era lì ad aspettarlo, che loro, ognuno di loro, gli appartiene, appartiene a Lui, al Papa, alla Chiesa.
E ad Erbil, alla fine di quei tre giorni trascorsi da pellegrino nei luoghi dove tutto con Abramo era iniziato, il Papa li ha così salutati: “Sono venuto a ringraziarvi e confermarvi nella fede e nella testimonianza”. E con la mano sul suo cuore ha pronunciato quelle parole che non hanno avuto bisogno di traduzione per far scattare dal cuore di tutti un lungo e affettuoso applauso: “L’Iraq rimarrà sempre con me, nel mio cuore”.
Ma anche per Papa Francesco questo storico viaggio era iniziato all’insegna dei legami, delle origini, del ritorno. Lo aveva detto nella piana di Ur, davanti a cristiani e musulmani, sunniti, sciiti, yazidi, lo aveva detto per tutti i figli di Abramo: “Qui dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle”.
E aveva ancora aggiunto Francesco, “gli occhi al cielo non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra, a intraprendere un viaggio. Ma tutto cominciò da qui. Il suo fu dunque un cammino in uscita”.
Quel cammino in uscita che il Papa non si stanca di indicare e che è reso possibile solo dalla certezza dei propri legami. Oggi quel cammino è la via della pace, del dialogo, della riconciliazione. Prima di proclamarlo nella Piana di Ur, Papa Francesco ce lo aveva fatto vedere in quella casa di Najaf, dove si era fermato per rendere omaggio al Grande Ayatollah Al-Sistani, la massima autorità sciita dell’Iraq. L’anziano ospite lo aveva accolto fraternamente, quasi trasgredendo il protocollo che non prevede che l’Ayatollah si alzi in piedi per salutare. Era stato un incontro più lungo del previsto, di cui non conosciamo nel dettaglio i contenuti, ma che possiamo solo guardare con commozione e gratitudine. “Mi sono sentito onorato”, ha detto il Papa in aereo ai giornalisti, “si è alzato per salutarmi, per due volte, un uomo umile e saggio, a me ha fatto bene all’anima questo incontro”. Un incontro che è stato il segno vivente delle parole che nella piana di Ur sarebbero poco dopo echeggiate. “Nel mondo di oggi, che spesso dimentica l’Altissimo, i credenti sono chiamati a testimoniare la sua bontà, a mostrare la sua paternità mediante la loro fraternità”.
In Iraq abbiamo visto un Padre che abbracciava i suoi figli, tutti suoi figli, tutti quei cristiani e musulmani che avevano pianto insieme nei giorni dei massacri e delle distruzioni e che insieme avevano lavorato per ripulire città, strade e chiese per accogliere il Papa. Un popolo che continuerà a ricordare quei giorni e che non potrà non guardare con speranza anche a quei segni di cambiamento che le parole di Al Sistani, riferite da fonti autorevoli, hanno anticipato: “Qui anche i cristiani devono poter vivere in pace e sicurezza”. Parole che hanno già trovato una conferma nel gesto del primo ministro iracheno che ha voluto istituire il 6 marzo come Giornata nazionale di tolleranza e coesistenza.
Due anni fa ad Abu Dhabi Francesco aveva firmato con il grande Imam Al-Tayeb lo storico documento sulla Fratellanza umana. Non era la prima volta che il Papa e la massima autorità religiosa sunnita si incontravano. Quella firma era stato l’esito di un rapporto di stima e fraternità maturato nel tempo. I rapporti tra uomini, i legami che si stabiliscono, le esperienze di vita che si incontrano possono cambiare la storia. Anche in Iraq abbiamo visto accadere l’inizio di una novità.
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