La ristrutturazione del quadro politico italiano accelera con ritmi e sviluppi in parte inattesi. L’avvento del governo Draghi – correttamente avvicinato dagli osservatori all’esecutivo Ciampi – ha da subito lasciato presagire soluzioni di continuità paragonabili a quelle che fra il voto del ’92 e quello del ’94 segnarono l’avvio della seconda repubblica. E la pandemia sembra in fondo affrettare i tempi di un passaggio in gestazione da anni: almeno dal governo Monti. Analogamente, trent’anni fa, Mani Pulite affondò il coltello in un declino già molto avanzato della prima repubblica.
Gli ultimi sondaggi confermano che Fratelli d’Italia è per ora il solo partito già in possesso di credenziali di cittadinanza nella terza repubblica, con passaporto valido nell’Unione Europea (dove Giorgia Meloni è non per caso presidente di Conservatori e Riformisti Europei, Ecr). L’opposizione “lepenista” è la sua collocazione di base a Roma e a Strasburgo, ma non impraticabile a combinazioni di governo.
I due partiti usciti vincitori al voto politico 2018 – M5s e Lega – si ritrovano entrambi un momento turbolento, tuttavia avvicinabile per molti versi a una crisi di crescita. La spia comune di questo momento di passaggio è la difficile ricerca di un’affiliazione all’europarlamento. I grillini, incerti e divisi fra Verdi e Pse; i leghisti calamitati dal Ppe (dove già abita Forza Italia) dopo il superamento dell’anti-europeismo in appoggio a Draghi, ma per ora ancora fuori dal recinto della “maggioranza legittimista” Pse-Ppe-Alde che sorregge la commissione von der Leyen.
È apparso sintomatico su questo versante il riflesso del leader leghista Matteo Salvini all’uscita dal Ppe di Fidesz del premier ungherese Victor Orbán. Salvini ha profilato la nascita di un nuovo raggruppamento a Strasburgo, di fatto concorrente con Conservatori e Riformisti, di cui fa al momento parte Diritto e Giustizia, il partito di governo in Polonia. Anche se in forme del tutto fisiologiche – al confronto con M5s e Pd – dalla Lega filtrano evidenti i segnali di dialettica fra le spinte alla confluenza nel Ppe (vi sarebbero sensibili il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti e il governatore veneto Luca Zaia) e il progetto politico nazionale perseguito da Salvini, con oggettivi risultati elettorali. Certamente la Lega si tiene ancora in mano tutte le carte: in fondo anche la granitica “Dc tedesca” è sempre stata una partnership fra la Cdu nazionale e la Csu bavarese. Così come nessuno può dimenticare che la Lega salviniana ha guidato il centrodestra a una storica vittoria in Umbria o raccolto il 20% in Sicilia a euro 2019.
Il partito fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, dal canto suo, ben difficilmente replicherà il clamoroso exploit elettorale di tre anni fa: ma appare difficile anche che sparisca dalla scena. Può darsi – anzi è probabile – che allenti o tagli le sue radici, che soffra diaspore e scissioni, che cambi nome e simbolo. Ha un leader annunciato – l’ex premier Giuseppe Conte – ma non ancora un profilo strutturato oltre il magma movimentista. Del “movimento” ha invece ancora l’agenda, anche se ampiamente consumata in tre anni e due governi; e per questo di riscrittura complicata.
Davanti a Conte e ai pentastellati “governisti” sembrano presentarsi almeno due opportunità di ingresso nella terza repubblica, al cancello elettorale del 2022 o 2023.
La prima – forse ambiziosa e più complessa – è quella di agganciare il treno verde che corre tuttavia quasi solo in Europa, fuori dai confini italiani. Conte dovrebbe rimodulare sia la spinta ambientalista delle origini M5s, sia la moderazione governista degli ultimi tre anni, puntando le antenne verso il probabile ingresso dei Grünen nella prossima coalizione di governo in Germania. Sarà nel caso da capire se e come una strategia “verde” possa intercettare specifiche dinamiche politiche interne: ad esempio quelle attivate dal prossimo rinnovi dei grandi sindaci del Nord.
A Torino il sindaco uscente – Chiara Appendino – è stata di fatto l’unica “bandiera” grillina sopra il Po, anche sulla scia no-Tav. A Milano invece, il sindaco ricandidato Beppe Sala non fa mistero della forte intonazione green della specifica strategia di recovery milanese: un laboratorio che potrebbe perfino superare le manovre romane finalizzate a una coalizione organica nazionale fra Pd e M5s. Resta in ogni caso un’incognita sostanziale: quanto pesa oggi veramente M5s a Milano, Torino, in Lombardia e Piemonte?
In Veneto alle ultime regionali i grillini si sono rivelati irrilevanti, esattamente come lo erano stati un anno fa nel supportare il centrosinistra in Emilia-Romagna. È anche quest’evidenza a condurre a un secondo orizzonte strategico per M5s: quello di “partito del Sud”, forgiato dal “governo del Sud” guidato da Conte negli ultimi 18 mesi e incarnato soprattutto da Luigi Di Maio. Un contenitore di forze populiste e antagoniste, la cui utilizzabilità per una maggioranza di governo è stata comunque testata per quasi tre anni. E gli ultimi giorni hanno ridisegnato questo prospettiva in termini ulteriormente favorevoli al “nuovo M5s”.
Il teorema che ha finora regolato i rapporti alterni fra Pd e M5s a partire dal 2013 è sempre stato questo: per quanto esuberanti fossero le “bolle” elettorali grilline, esse erano sempre gonfiate da “voti il libera uscita” dal Pd verso una non meglio precisata “protesta”, comunque “a sinistra”. Non è affatto paradossale che proprio in questi giorni Grillo abbia ricordato di aver chiesto in passato la tessera Pd, che gli sarebbe stata rifiutata. Il comico ligure – a differenza del co-fondatore Casaleggio Sr – non è mai stato convinto di aver creato un “post-partito” vero e proprio. E appena ne ha visto le condizioni – nell’estate 2019 – non ha avuto problemi a formare una coalizione di governo che forse era matura già dopo la “non vittoria” del Pd nel 2013. Ma all’epoca – anche in streaming – fu fatale proprio la presunzione di totale superiorità etico-politica del Pd di Pierluigi Bersani. Che è poi alla base del dramma odierno del Pd: precipitato nei sondaggi alle spalle di Lega, FdI e M5s. Quest’ultimo starà mettendo in mostra dilettantismi e immaturità propri delle crisi di crescita, ma appare anche privo di complessi, anzi: appare consapevole di poter continuare a fare il “senior partner” rispetto al Pd. Mettendo in campo Conte.
È anche per questo – forse propri per questo – che il Nazareno ha disperatamente chiesto a Enrico Letta di tornare di corsa da Parigi a Roma per assumere le redini. È l’ultimo vero premier Pd prima di Matteo Renzi, rottamatore fin qui anche di se stesso, salvo ora scommettere su un progetto macroniano il capitale politico rimastogli dopo la lunga parabola iniziata nel 2014.