Ci sono voci e voci. La voce di un essere umano dice più di ogni strumento. Perché arriva da lì, dall’intestino, passa per il cuore, si purifica o si sporca, dipende dai momenti, e viene sputata fuori dalla bocca passando attraverso la gola. La si può modificare, prendendo lezioni e facendo sforzi. O la si può lasciare così come esce. In quel caso è la voce dell’onestà, dello spirito, non importa che sia “bella”. Kris Kristofferson, Bob Dylan, Leonard Cohen per dirne solo alcuni sono questo genere di voci. Tom Chacon (che comunque ha una splendida voce) fa parte di questa antica tradizione che sembrava scomparsa, inghiottita dal nulla che divora il nostro mondo, questo Terzo Millennio cominciato nel segno della morte, quell’11 settembre del 2001, e proseguito con le guerre che hanno straziato milioni di vite innocenti, dalla Siria alla Nigeria. Poi ci si è messo anche un fottuto virus.
Il terzo disco di una carriera per pochi intimi, quello più scarno e diretto, quello più carico di urgenza, dolore, verità, arriva adesso e si intitola “Marigold and Ghosts”, calendule (un fiore originario del Medio oriente) e fantasmi. Solo la sua chitarra acustica arpeggiata delicatamente, il basso pulsante di Tony Garnier (sì, quello che da più di trent’anni suona dal vivo con Bob Dylan e che era già presente nei suoi precedenti lavori) e la sua voce, quella voce. Ballate tra Paris, Texas, e il “the great divide”, la grande frattura che divide in due gli States. Ma ancora più in là, verso le terre delle calendole da dove proviene la sua famiglia. Un fingerpicking semplice ma elegante, come se uscisse da un club del Greenwich Village negli anni 60, nel brano che apre il disco (la storia di un amico che ha passato cinque anni in carcere) o nella magnifica Church of the great outdoors, un brano che Eric Andersen avrebbe potuto vestire della sua delicata eleganza. Che è, dice lui, “la mia preghiera a poteri più grandi di me” come riconoscimento e accettazione della propria condizione. Come se fosse l’ultimo giorno sulla terra. Bellissima. In Florence John, ricordi della nonna materna, spunta anche un dobro.
Sangue metà libanese, metà messicano, nato a Sacramento ma proveniente da Durango, la città leggenda del vecchio West, un vecchio cugino pugile, quel Bobby Chacon, cantato da Warren Zevon, avversario di Ray “Boom Boom” Mancini nell’omonima canzone, e un nonno sceriffo nel New Mexico ai tempi di Billy The Kid. Abbastanza per fare di lui un “true american”, un autentico americano, perché un vero americano è frutto di mille incroci di razza, cultura, religioni.
Con questo scarno e diretto lavoro Chacon abbandona quelle sonorità un po’ alla Springsteen del precedente lavoro che ne avevano diluito il carisma: adesso è davvero lui. E canta, nella amara e dylaniata Borderland, dei bambini messicani divisi dai genitori al confine con gli Stati Uniti, l’immane crudeltà della politica sull’immigrazione americana. Dice che ha risposto alla richiesta di Neil Young ai cantautori americani di scrivere di questo argomento. Ci risulta sia il solo che abbia risposto alla chiamata.
In Sorrow, delizioso brano dall’incedere country che rimanda a quell’altra grande preghiera che fu di Kris Kristofferson, Why me Lord, si attacca ancora alla preghiera, “quella fede cattolica che mi hanno lasciato i miei genitori”. Il dramma dei migranti, quelli di tutto il mondo, torna anche in A better life mentre Kenneth Avenue è il ricordo della sua adolescenza, cercando di venire a patti con l’amore per una ragazza e la separazione dei suoi genitori. Permettendosi, in conclusione, con Angel eyes, dylaniata anche questa anche per l’uso dell’armonica a bocca, di pagare tributo all’attore Lee Van Cleef, protagonista di tanti film di Sergio Leone. Solo lui poteva vederci degli occhi d’angelo in uno degli sguardi più cattivi della storia del cinema…
Alla fine restano fiori e fantasmi, morte e speranza, in uno dei dischi più spudoratamente onesti che si ascolta da decenni. Una rarità.
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