Ho incontrato John Polkinghorne (1930-2021) per la prima volta nel 1987 a Cambridge, dove era Dean di uno dei più antichi e celebri college inglesi, il Trinity Hall. Polkinghorne, che si è spento il 9 marzo all’età di 90 anni, era già ben noto nel mondo scientifico per le sue ricerche di fisica quantistica, essendo stato allievo e collaboratore di due premi Nobel come il grande Paul A.M. Dirac e il pakistano Abdus Salam e avendo avuto un ruolo rilevante nella scoperta dei quark. Ma era balzato alla ribalta pubblica quando, al culmine della carriera scientifica, aveva deciso di “proseguire la ricerca” seguendo un altro percorso e diventando sacerdote della Chiesa anglicana. La sua notorietà è cresciuta a seguito della pubblicazione del libro One world: the interaction of science and theology, pubblicato in Italia da Mondadori col titolo Scienza e fede, nel quale ha affrontato le grandi questioni culturali aperte dalla fisica del 900 attraverso la sua esperienza di scienziato in una visione unitaria e profondamente realista. Da allora sono stati numerosi i suoi interventi e i suoi contributi su questa tematica e proprio su questo argomento lo andavo a intervistare; ma l’incontro con lui, sia allora che le volte successive, offriva sempre qualcosa di più di una chiara e acuta testimonianza intellettuale.
Ricordo ancora la calorosa accoglienza e il tratto gentile e attento – al termine dell’intervista si offrì con semplicità di darmi un passaggio in macchina fino all’hotel –, la capacità di ascolto e la pacatezza delle pur rigorose argomentazioni. Come pure la finezza della posizione culturale, che ho visto riflessa in un grande poster che dominava l’ingresso del suo studio al Trinity Hall: il poster era una gigantografia delle equazioni del campo elettromagnetico – che formulano una grande sintesi di elettricità, magnetismo e ottica – ma in calce, al posto della firma del loro autore Clerk Maxwell, c’era un ben più autorevole e significativo biblico “fiat lux”.
Ricordo anche il lieve imbarazzo mostrato quando gli feci notare che nel libro, sulla questione del realismo, aveva osato criticare un mostro sacro della fisica come Niels Bohr affermando che il padre della quantistica “aveva torto” quando riteneva “un errore pensare che il compito della fisica sia scoprire come la natura è”. “Avrei forse potuto esprimermi meglio”, rispose, ma poi prontamente riaffermò “la convinzione che anche la fisica quantistica ci rivela una parte di realtà; certo, non nel modo che ci si aspetterebbe in base ai criteri di un’oggettività ingenua legata al senso comune. Del resto anche la teologia è un tentativo di comprendere qualcosa di non facilmente rappresentabile; in ciò la scienza moderna e la riflessione teologica hanno un significativo elemento di affinità”.
L’affermazione della possibilità, o più ancora della necessità, di un rapporto dialogico e costruttivo tra teologia e scienza è tra le motivazioni che gli valsero il conferimento del prestigioso Premio Templeton nel 2002 “nel riconoscimento della sua visione moderna e avvincente della teologia come complemento delle scienze naturali, contribuendo insieme alla ricerca della verità”. Polkinghorne amava spiegare la necessaria integrazione fra scienza e teologia con la metafora del “binocular approach”, come disse intervenendo al Meeting di Rimini nel 2009, sul tema della certezza nella scienza, e al Simposio The Event of Discovery organizzato a San Marino in collegamento col Meeting dall’Associazione Euresis e dalla Templeton Foundation; un approccio esplicitato in una successiva intervista rilasciata a Emmeciquadro: “Io intendo prendere la scienza molto sul serio, perché ha avuto un grande successo. Ma nonostante il suo successo essa non può neppure tentare di rispondere a molte grandi domande. Per esempio la domanda su come le cose accadono nel mondo, per quale scopo esse accadono. Ma ci sono molte altre domande che sorgono, come: c’è un significato che il mondo sta portando avanti, c’è un valore che il mondo sta realizzando? Per parlare in tutta onestà e verità, la scienza è impotente a rispondere a queste domande, tuttavia noi non possiamo fare a meno di porcele. E se guardo a me stesso, la comprensione religiosa del mondo come una creazione divina può definire meglio la risposta e aprire la strada a una domanda più profonda. Così io ho bisogno di scienza e religione insieme. Io amo dire che sono due occhi: posso vedere con l’occhio della scienza e posso vedere con l’occhio della religione. E guardando con due occhi insieme posso vedere più lontano e più in profondità di quanto possa fare l’uno o l’altro di essi da solo”.
L’esigenza di unitarietà nell’esperienza conoscitiva, corrispondente alla misteriosa e affascinante unità della realtà, l’ha portato a dissociarsi, benevolmente, anche da un altro grande scienziato che pur ammirava: il fisico Michael Faraday, credente e cristiano praticante, del quale si è detto che quando entrava in laboratorio dimenticava la religione e quando ne usciva dimenticava la scienza. “Spero che non fosse vero”, ha scritto Polkinghorne in One world. La distinzione degli ambiti di conoscenza ha la sua utilità e ragionevolezza: l’uomo però è mosso da un profondo desiderio di comprendere la realtà e la realtà è unitaria, anche se ha molti livelli; la scienza può accedere soltanto ad alcuni livelli e il complemento degli altri resta indispensabile.
E Polkinghorne non esitava ad affermare che “nel Dio Creatore questi livelli differenti trovano il loro spazio e la loro garanzia. Egli è la fonte della connessione, colui il cui atto creativo contiene in sé le prospettive del mondo della scienza, dell’estetica, dell’etica e della religione, come espressione più piena della sua ragione, gioia, volontà e presenza. Questo carattere di intreccio del mondo creato trova la sua espressione più piena nel concetto di sacramento, un segno esteriore e visibile di una grazia interiore e spirituale, una meravigliosa fusione degli interessi di scienza e teologia”.
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