A tutti coloro che hanno ascoltato la relazione programmatica di Enrico Letta è sorto lo stesso dubbio: avrà la forza di essere coerente con un percorso tanto ambizioso? Dubbio legittimo, di fronte alle correnti che si dilaniano e che il segretario ha attaccato frontalmente pochi minuti prima di essere votato quasi plebiscitariamente. Ma questo interrogativo potrà trovare risposta solo nei prossimi mesi. Per il momento bisogna ragionare partendo dalle intenzioni espresse.
Quello che ha delineato Letta è un Pd che vuole tornare protagonista innestando nel confronto politico numerose novità. È un Pd che crede nel bipolarismo, con due rilevanti conseguenze. La prima è l’abbandono della vocazione maggioritaria con cui il partito era nato con Veltroni. Sì alla coalizione, si al dialogo con i 5 Stelle, ma in quest’ottica Giuseppe Conte non è più il federatore del fronte giallorosso immaginato da Zingaretti. È il leader dei pentastellati, cosa che lascia aperta la discussione su chi possa essere la guida dell’alleanza. Letta, a un certo punto, ha parlato di “leadership democratica”: sono parole che possono fare pensare a un solo scenario, che questa leadership è contendibile e non scontata. Saranno quasi certamente le amministrative rinviate all’autunno a stabilire chi fra democratici e grillini abbia maggior forza. Chi quindi debba essere il portabandiera dell’alleanza. Conte e Grillo oggi applaudono al successore di Zingaretti, ma la musica è cambiata, difficile che non se ne siano resi conto.
La seconda conseguenza della ritrovata spinta bipolare è l’abbandono dell’idea di poter riformare la legge elettorale in senso proporzionale. Già c’era la ferma contrarietà della Lega, con quella del nuovo leader del Pd il proporzionale esce dal novero delle possibilità. Letta propone di tornare a discutere partendo dal Mattarellum (75% dei seggi con i collegi uninominali e 25% con il proporzionale), un meccanismo in fondo non lontanissimo dall’attuale Rosatellum. Con Salvini a naso un’intesa potrebbe non essere impossibile.
Tutta un’altra storia sul piano programmatico: Letta ha detto “una cosa di sinistra” sullo ius soli (scontato il muro del centrodestra), poi ha delineato priorità programmatiche. Certo, sono titoli che possono essere declinati in molti modi, più o meno progressisti, ma l’impressione è che il suo approccio risenta dall’essere stato per gran parte della sua vita uomo delle istituzioni e del governo, piuttosto che non uomo di partito.
E qui torniamo al confronto a distanza con Giuseppe Conte, ex premier come Letta. Oggi i due sono condannati a collaborare, ma presto dovranno stabilirsi fra loro delle gerarchie. In vista della guida della coalizione, come detto più sopra, ma anche in vista della corsa al Quirinale, una poltrona alla quale entrambi sino a inizio gennaio sembravano papabili. Ora tutto è cambiato: uno non è più presidente del Consiglio, l’altro non è più “riserva della Repubblica” nell’esilio dorato di Parigi. Ora entrambi si debbono sporcare le mai con il rilancio di due partiti usciti con le ossa rotte dalla crisi che ha portato al governo Draghi.
A dirla tutta poi, nessuno dei due ha chances reali di essere eletto al Quirinale, perché da leader di partito dovrebbero avere il sostegno del centrodestra, o almeno di una sua parte. Non è un caso che un solo segretario di partito sia mai stato eletto al Quirinale, il socialdemocratico Saragat. Di fronte a un Letta (o a un Conte) candidato al Colle dall’asse giallorosso non c’è dubbio che Salvini e Berlusconi rilancerebbero con il nome di Draghi, assai più forte almeno in questo momento.
In ogni caso, anche l’elezione di Enrico Letta alla segreteria democratica si aggiunge ai tanti segnali che fanno apparire improbabile la prosecuzione dell’esperienza Draghi oltre la fine del mandato dell’attuale inquilino del Quirinale. L’equilibrio di oggi, infatti, si regge su due pilastri, Mattarella e Draghi. Non appena uno dei due verrà meno, la tregua del governo di salvezza nazionale sarà arrivata al capolinea. Unica ipotesi in cui la legislatura possa arrivare alla sua scadenza naturale del 2023 è la rielezione a tempo di Sergio Mattarella. Ma il diretto interessato è fermamente e dichiaratamente contrario a questa ipotesi, almeno a oggi.
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