Caro direttore,
dopo i fatti avvenuti sabato 13 a Mandalay, le stesse scene si sono ripetute nei giorni successivi a Rangoon e in tutta la Birmania. Cambiano solo i dettagli, ma la sostanza – drammatica ovunque – è la stessa. Impossibile dare numeri precisi: si parla di circa 50 morti solo a Rangoon. Un tempo, per descrivere quanto sto vedendo, si sarebbe usata l’espressione “scene da macelleria messicana”: ora andrebbe cambiata, perché l’efferatezza e la violenza di questi giorni è senza paragoni.
La popolazione sta prendendo d’assalto le attività commerciali o industriali di proprietà cinese. Negozi, centri commerciali, hotel e fabbriche cinesi vengono attaccate e date alle fiamme. Questo perché, secondo l’opinione pubblica birmana, i generali golpisti sono appoggiati dalla Cina. Pechino nega, ma a questo punto quasi non importa. Ciò che rileva è come qui viene percepita la questione dalla gente comune. Ed è chiaro che non dovrebbe essere difficile per Pechino costringere le parti a sedersi a un tavolo negoziale.
La situazione è davvero complessa, perché i militari non possono perdere, ma il popolo non può vincere. Semplicemente perché non hanno le armi: al massimo bastoni e coltelli. La loro unica vera arma è il desiderio di libertà, un desiderio che accomuna tutto il popolo birmano: non ci sono più le divisioni etniche, che pure fino a poco tempo fa avevano condizionato la vita politica, ma sono cambiate anche le stesse relazioni personali fra la gente.
Ci vorrebbe Oriana Fallaci o almeno qualcuno più freddo e distaccato di me – per me non è così, io qui ci vivo, ho affetti, amicizie… – a descrivere quanto qui accade. Sono stanco di non dormire. Il momento della giornata per me più brutto è quando torno a casa alla sera, perché è duro riuscire a parlare fra di noi. Non pretendo dare un giudizio sulla giornata, ma semplicemente è difficile, ogni giorno, trovare qualcosa da dire per sostenere la speranza dei miei famigliari. Se guardo dentro di me non so se sia più grande il disprezzo per quanto l’esercito sta facendo o l’ammirazione per questa gente. E scrivere ogni volta di morti mi riempie ancor più di dolore.
E’ evidente che i ribelli pensavano che la popolazione avrebbe accettato supinamente il nuovo status quo, ma così non è, non hanno fatto i conti con il fatto che la gente ha assaporato cos’è la libertà e ora non accetta di tornare indietro.
Tra gli amici con cui ho rapporti registro posizioni diverse. Da un lato, specie dopo i fatti degli ultimi giorni, c’è chi sostiene che la Birmania deve uscire da questa situazione, non può essere sempre ostaggio dell’esercito, perché quanto è accaduto dimostra che i generali hanno un desiderio, inestirpabile, di potere e ricchezza senza limiti. Perciò, come in una sorta di poker, “all in”: o si vince o si perde tutto.
Dall’altro c’è chi dice che bisogna essere realisti, cercando una mediazione. È impensabile cancellare il ruolo dell’esercito, ma – nel contempo – non si può annullare il risultato delle elezioni né il cammino per il compimento della democrazia. Occorre sedersi intorno a un tavolo e trovare la soluzione. Senza stravincere, però: questo produrrebbe solo nuovo rancore. Occorre invece pacificare.
E anch’io propendo per questa soluzione. Ma non può avvenire tra mesi. Una volta si diceva: “Mentre Roma discute, Sagunto brucia”. Ora dico: “Mentre il mondo discute, a Rangoon si muore”. Ecco perché deve avvenire al più presto.
Sappiamo che la cosa non è semplice, ma conviene a tutti trovare una soluzione. Sappiamo che sono molti gli interessi coinvolti. Sappiamo che il nostro paese è strategico: nuove vie di comunicazione per le merci cinesi, gasdotti e oleodotti dall’oceano Indiano alla Cina, materie prime (“terre rare”, legname pregiato, petrolio, gas, giada, rubini, zaffiri), droga (il Myanmar è tra i più grandi produttori al mondo). Sappiamo che viviamo in un’economia globale, dove contano gli interessi di Cina, Singapore, Usa, Giappone, India eccetera. Ma quella che stiamo vivendo è già una guerra civile, che può solo diventare una guerra civile totale: non converrebbe a nessuno. Né agli attori interni, né a quelli esteri. Forse solo ai trafficanti di droga.
Sedersi intorno a un tavolo farebbe risparmiare settimane o mesi di morti. Dobbiamo attendere gesti estremi come in passato?
Un lettore dal Myanmar
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