Un anno fa, quando Bergamo era devastata dalla pandemia da coronavirus, assurta sui media come “città martire” per il numero disastroso di contagi e di morti, avevamo parlato con frate Riccardo Corti, responsabile della mensa dei poveri del convento di cappuccini che si trova di fianco alla Basilica di Sant’Alessandro in Captura. Erano i giorni immortalati nelle immagini shock della lunga fila di camion militari per le strade di Bergamo che trasportavano le bare delle vittime del Covid a essere cremate in altre regioni, perché il cimitero della città non aveva più posti disponibili. “Abbiamo sentito dire spesso – ci ha detto un anno dopo, quando a Bergamo si commemora la prima Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid – che questa pandemia è una prova che manda Dio. Io non ci credo. La pandemia fa parte di una realtà faticosa dove invece Dio si fa accanto a te come amico e dice ‘Io sono con te’, non è un Dio che gode della morte e della sofferenza, ma si fa compagno di viaggio”.
Bergamo simbolo nazionale delle vittime di Covid: che cosa si prova?
Fa effetto perché sei in una realtà dove a volte certe cose sembrano lontane, invece sono concrete e attuali e colpiscono proprio dove vivi tu. Le vivi in prima persona. La domanda che personalmente mi pongo dentro a questa situazione è: come voglio viverla, come voglio comportarmi?
La foto dei camion pieni di bare, le vittime sotto al balcone, sono immagini che ci porteremo dentro per sempre. Che cosa ci dicono un anno dopo?
Sentiamo dire che questa pandemia è una prova che manda Dio, ma io non credo a questo modo di vedere le cose. Questa pandemia fa parte di una realtà faticosa dove Dio si fa accanto a te come amico e dice “Io sono con te”, non è un Dio che gode della morte e della sofferenza, ma si fa compagno di viaggio.
In che modo?
Il passaggio importante è che questo si concretizzi nelle relazioni, negli aiuti. Penso alla nostra mensa, alle persone che vengono a dare una mano, che non ci hanno mai lasciati soli. Persone che dentro alla sofferenza non si dimenticano che ci sono persone che stanno peggio di loro.
Si può dire che, nonostante il dolore, questa pandemia ha tirato fuori cose inaspettate dalla gente? Ci può citare degli esempi?
Già prima della pandemia a Bergamo c’era attenzione alla realtà del disagio, ma durante la pandemia abbiamo assistito a uno scoppio di quella che noi chiamiamo provvidenza. Gente che voleva aiutarci, che portava generi alimentari, un’attenzione all’uomo che definirei vivace.
Bergamo e provincia sono state colpite dalla morte di tanti sacerdoti, che sono rimasti in mezzo alla gente nonostante il pericolo. Che segno è questo?
Sì, penso a don Fausto Rismini, morto esattamente quasi un anno fa. Era un sacerdote molto conosciuto e amato dalla gente, sempre accanto agli ultimi. Era cappellano del carcere di Bergamo, aveva creato una comunità per minori disagiati, si spendeva continuamente anche per i migranti, aveva creato una mensa alla stazione cittadina. Sono segni che restano nella storia della nostra città. Da lui ho imparato molto, la sua eredità resta proprio nel ricordare e rileggere la sua vita. Questi sacerdoti sono stati uomini appassionati alla vita, innamorati di Gesù e dell’uomo, riconoscendo appunto che Gesù passa in un volto concreto.
La vostra mensa non ha mai chiuso, avete avuto casi di contagi?
Tra i nostri ospiti qualcuno c’è stato, soprattutto nei primi mesi, ma ci siamo organizzati creando strutture adeguate.
Un anno dopo siamo ancora nel tunnel di questo virus, molta gente è stanca e sfiduciata. Che cosa si sente di dire loro?
Tutto quello che vedo ogni giorno è speranza. Dico di non perdere la speranza, è nel cuore dell’uomo, nonostante la pandemia c’è ancora spazio per la bellezza e in giro ce n’è tanta davvero. La pandemia ha fatto emergere una solitudine che esisteva già prima, paradossalmente è l’occasione per far crescere una società che recuperi i valori fondamentali della convivenza, spesso troppo dimenticati.
(Paolo Vites)