La battaglia non è ancora vinta, e sul fronte dei vaccini regna un’imprevista confusione alimentata da cicatrici vecchie, come la Guerra fredda, o recenti, come la Brexit. Eppure, in ordine sparso, tutti già si preparano alla corsa del dopo, quando le nazioni cercheranno di rubare posizioni alla concorrenza approfittando del caos creativo di questo inedito dopoguerra che ha cambiato le regole del gioco. Manca ancora tempo, ma già si vede qualcosa di nuovo nello schieramento delle varie squadre. A partire dall’America di Joseph Biden, decisa a cancellare la minaccia Trump (e del sovranismo) una volta per tutte.
Il neopresidente, giudicato all’esordio, sia per l’età che per la lunga militanza politica, alla stregua di un moderato, si è rivelato di tutt’altra pasta. A partire dall’economia, investita da un ciclone di 1.900 miliardi di dollari (più o meno l’intero Pil italiano) di aiuti a imprese e privati con l’obiettivo di accelerare la ripresa, anche a costo di far saltare le barriere anti-inflazione. Una soluzione keynesiana? Solo in parte. In realtà già Donald Trump aveva garantito al sistema i capitali per affrontare la crisi. Oggi, tra incentivi vecchi e nuovi, le famiglie americane sono più ricche che nel 2019.
L’obiettivo del piano di Biden non è la semplice ripresa dell’economia, bensì la trasformazione degli equilibri sociali del Paese: dopo quarant’anni di calo della pressione fiscale e di imperante liberismo. l’America cambia passo e cerca di recuperare il consenso delle classi che hanno pagato il prezzo più alto alla deregulation in termini di diritti e di salari e guarda alle elezioni di mid-term per garantirsi una maggioranza parlamentare sufficiente a sviluppare la parte più difficile: l’aumento delle tasse, necessario per sostenere il suo “New deal” in materia di ambiente, sanità e istruzione.
In questo quadro, poi, l’America si riscopre più aggressiva, sia nei confronti della Russia che della Cina. Ma così facendo lancia un monito all’Unione europea, anzi alla Germania, “colpevole” di aver siglato un trattato commerciale a tutto campo con la Cina e essersi legata a doppio filo alla Russia, da cui dipende in maniera quasi esclusiva per l’energia.
La Germania, il Paese chiave dell’Unione, è entrata nella delicata fase di transizione dal lungo regno di Angela Merkel a nuovi equilibri. Di qui le incertezze che stanno segnando la ricerca del successore, sia in patria che a Bruxelles. Transizione difficile perché la Germania ha imboccato in ritardo la via dell’economia digitale, e non ha effettuato, per colpa dell’ossessione del pareggio di bilancio, il necessario rinnovamento delle infrastrutture. Soprattutto è stata colta di sorpresa dalla crisi della sua industria leader, l’auto, investita dal dieselgate, vissuto come un tradimento imperdonabile della fiducia del Paese. Ma, come capita alle grandi nazioni, la Germania dà il meglio di sé nelle difficoltà.
L’auto, grazie a un impegno finanziario straordinario ma ancor di più facendo leva sulla qualità del personale, ha affrontato la sfida mortale dell’elettrico. E la sta vincendo grazie ai suoi ingegneri, grazie al coraggio con cui ha rivoltato le fabbriche, messo a punto nuovi sistemi di produrre, investito massicciamente in software per costruire in pochi anni un’impresa in grado di sfidare Tesla.
Dal punto di vista politico è una Germania sempre più verde in cui la socialdemocrazia, dopo un lungo declino, può tornare a recitare un ruolo rilevante con i suoi operai che, dismessa la tuta blu, sono ormai i tecnici di una società basata sull’elettronica, pronta a sfidare i primati dell’Asia.
E l’Italia? Dopo una lunga fase di sbandamento, il Bel Paese ha recuperato con Mario Draghi la sua vocazione europea e atlantica. A suo vantaggio giocano diversi fattori: l’integrazione del sistema industriale con la Germania ma anche con la Francia (vedi Stellantis); il probabile boom, dopo l’epidemia, della domanda internazionale in settori manifatturieri (vedi moda e design) e dei servizi (turismo). Decisiva sarà, però, la capacità di attrarre capitali a lungo termine per finanziare lo sviluppo come il Paese non è stato capace di fare in passato per colpa del gap accumulato nella formazione del personale e nell’amministrazione della giustizia.
Una sfida improba. Ma se non ora quando?
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