La scelta di Enrico Letta di portare avanti dei provvedimenti-bandiera, quali il voto ai sedicenni e lo ius soli, costituisce il segnale di una volontà di recupero identitario e serve innanzitutto a restituire un supplemento di immagine ideale ad un partito che, da diversi anni, si è fatto notare sempre di più per i successi di occupazione istituzionale che ha conseguito che non per i contenuti ideali che ha indicato. La stessa battaglia “anti-populista” o “anti-sovranista” si è alimentata più sulla designazione di un avversario e l’enfatizzazione del pericolo che questo avrebbe dovuto presentare, che non sulla definizione di ciò che si è e cosa renda specifico il modello che si vorrebbe conseguire.
È logicamente importante che si stia dentro il Pd per degli obiettivi etico-morali; obiettivi che debbono essere condivisibili proprio dalle componenti generazionali e di genere più fragili e meno tutelate: cioè i giovani (ed in particolare i giovani immigrati) e le donne, che hanno registrato nel Pd, almeno fino ad oggi, il massimo di divaricazione tra un “femminismo” rivendicato ed un “maschilismo” praticato. Gli obiettivi che Enrico Letta sta indicando sono quindi collegati tra loro e sono tali da costituire una costellazione di valori che vuole prefigurare un mondo nuovo: dove i ragazzi e le ragazze più giovani diventino soggetti politici e non solo frequentatori di movide, dove i figli dei migranti possano guardare all’Italia come alla loro nuova patria e le donne siano maggiormente integrate nei ruoli di vertice, esattamente come succede già altrove, non solo fuori dall’Italia, cioè nelle istituzioni europee, ma anche in Italia e segnatamente nei partiti di centrodestra.
Dalla sua parte Enrico Letta può contare su un modello di pensiero oltremodo diffuso – che tra l’altro ha proprio nel clima culturale di SciencesPo di Parigi uno dei suoi quartieri generali – secondo il quale le esclusioni dei sedicenni, dei figli degli immigrati e delle donne non sono che la conseguenza di altrettanti pregiudizi ideologico-culturali, più che di reali condizioni materiali. Proprio perché si ritiene che le esclusioni siano l’esito di pregiudizi culturali, è sufficiente cambiare le posizioni sociali degli attori sul piano politico collocando dentro il sistema elettorale i primi e promuovendo agli incarichi di vertice le seconde e tutto cambia, o almeno inizia a cambiare. È questo il vero e proprio canto delle sirene sul quale ci si è adagiati nell’ultimo mezzo secolo, anche ben al di fuori dalle mura di SciencesPo.
In realtà la causa dell’esclusione non risiede nella cultura ma nelle condizioni concrete di vita nelle quali adolescenti e donne si trovano a vivere. Condizioni che sono caratterizzate innanzitutto da una crisi occupazionale che rende incerti tutti i percorsi di promozione lavorativa e professionale.
Ci si dimentica volentieri di quanto le condizioni delle diverse esclusioni siano determinate da un mercato del lavoro che non potendo garantire l’inclusione automatica, fa di tutte le iniziative professionalizzanti altrettanti sentieri scoscesi sui quali le frange più deboli della popolazione (reperibili con maggiore facilità tra i giovani e tra le donne) scelgono consapevolmente di non avventurarsi. Al posto di queste vie impervie e rischiose, le frange con meno risorse materiali si volgono razionalmente verso una stabilità lavorativa più agevolmente reperibile nelle posizioni di base, reperibili presso le grandi imprese private, la pubblica amministrazione o la rete dei servizi pubblici.
L’apertura delle cabine elettorali ai sedicenni o la garanzia di promozione automatica per rispetto delle quote rosa (perché di fatto questo è avvenuto nella scelta dei rappresentanti del Pd alle due Camere) non scalfiscono minimamente le condizioni di marginalità reali che si creano sul mercato del lavoro, che è qualcosa di ben diverso tanto dall’empireo parlamentare quanto dall’universo soft della cabina elettorale.
Come è stato fatto osservare, una tale scelta di obiettivi, portata avanti dal nuovo segretario del Pd, si colloca per alcuni aspetti al di sopra, per altri al di fuori di quanto si rende necessario all’attuale governo d’emergenza, serrato dai problemi già noti della pandemia e dalla crisi generata dai lockdown, la cui road map – che Enrico Letta conosce benissimo – è stata già presentata da Bruxelles come condizione per l’ottenimento dei fondi europei.
Una tale strategia di sopravanzare i problemi immediati con una visione di medio termine può effettivamente avere successo? All’interno del Pd e in alcune aree limitrofe certamente sì. Non è infatti da escludere che ciò rinsaldi la militanza interna e recuperi qualche “compagno di strada” che si possa così avvicinare al partito, una volta che quest’ultimo persegue obiettivi di inclusione di così ampia portata.
All’esterno dell’universo delle rappresentazioni, cioè nella realtà dei processi sociali e per i motivi che qui abbiamo riassunto, certamente no. Le logiche dell’esclusione non risiedono nei pregiudizi ma nella struttura di una società nella quale, se le opportunità sono uguali per tutti, non tutti possono permettersi i rischi delle strade più ardite e dei percorsi più impegnativi. Non tutti possono permettersi di vivere a lungo nella precarietà professionale quando alle loro spalle non c’è nessuno.
Si pone allora il problema dei costi, o se si preferisce, delle perdite. La scelta di parlare al di sopra ed al di fuori dell’emergenza pandemica e delle misure di rilancio dell’economia per rievocare principi ideali, se da un lato rivela quanto sia oramai necessaria per il Pd la configurazione di una “carta identitaria”, tanto ad uso interno, volta a rinserrare le fondamenta ideali di un’identità politica, quanto ad una necessaria visibilità all’esterno, cercando di differenziarsi dal centro-destra, è indubbio che scuota pesantemente il clima di “tregua d’armi” pazientemente creato dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Una tregua voluta e perseguita per rispondere alla crisi pandemica ed ancora di più al disastro economico che vi sta facendo seguito.
Ne vale veramente la pena? Probabilmente no ed è impossibile che Enrico Letta non lo sappia. Resta quindi una sola spiegazione possibile: quella costituita dalla necessità di recuperare fiato per una lunga marcia che dovrà vedere un Pd completamente rinnovato alla prossima scadenza elettorale. Solo a queste condizioni si spiega la svolta ideale tesa a far rialzare sul piano degli ideali un partito profondamente logorato dalle lotte interne. Resta solo il fatto che, come ha avvertito Draghi, quando la pandemia sarà passata non sarà come “riaccendere la luce”. Nell’Italia che verrà, ma forse anche nel mondo che si sta rialzando, molto poco sarà come un anno fa, quando ci siamo tutti chiusi in casa. Probabilmente a SciencesPo una tale variabile non è stata ancora analizzata.
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