La quota del mercato dei chips controllata dagli Stati Uniti dieci anni fa era pari al 37 per cento del totale. Nel 2010 è scesa al 12 per cento. Nello stesso periodo l’Europa è passata dal 35 all’8 cento del mercato. La Cina, in pratica assente dalla scena fino alla fine degli anni Novanta, oggi controlla il 15 per cento, destinato a salire entro la fine del decennio al 24 per cento. Intanto, i tre quarti della produzione mondiale di semiconduttori, la materia prima di base dell’industria nell’era dell’elettronica, sono concentrati nel Far East, sotto il controllo di due big, la taiwanese Tmsc e la coreana Samsung, e di alcuni concorrenti giapponesi e cinesi.
Ecco la fotografia di una realtà scomoda e pericolosa perché, tra l’altro, oggi non è possibile nemmeno immaginare la produzione di un’auto senza disporre dei chips necessari. E non solo. Questa cornice spiega l’entusiasmo con cui Wall Street ha accolto la notizia che Intel intende dare il via a due nuove fabbriche di chips sul territorio americano con un investimento complessivo di 20 miliardi di dollari. Senza nemmeno avvicinare, secondo gli esperti, l’efficienza e la qualità dei gruppi asiatici. Ma poco importa. Ormai gli Usa ragionano sulla base della sindrome di Hong Kong.
La potenza cinese, secondo Washington ha inquadrato nel mirino Taiwan, in questo momento l’anello più delicato dell’economia globale. Certo, la flotta di Washington (ma anche quella inglese e perfino i tedeschi) si schiererà a difesa dell’isola, però Pechino è abbastanza forte per tirare dritto, consapevole che nessuno a Ovest intende morire per Taipei. Meglio pensare, perciò, a un trasloco in grande stile dell’industria dei semiconduttori più vicina alla Silicon Valley.
Al contrario, i Big della finanza cinese, specie le matricole hi tech e fintech, stanno smantellando gli avamposti creati in anni recenti con grandi ambizioni tra la California e Wall Street. Il gigante Alibaba ha dovuto far ritorno in patria, promuovendo la quotazione a Hong Kong. Con forti perdite perché è ancora in piedi la minaccia Usa di far sloggiare le società cinesi dalla Borsa Usa come si proponeva di fare Donald Trump. Pechino protesta ma non troppo: cresce semmai l’astio verso il “nemico”, accusato di aver scatenato la pandemia contro il Celeste Impero, come sostengono apertamente i media cinesi (uno dei più diffusi promosso da Zhao conta 275 milioni di followers). La Repubblica popolare, superata la prova del Covid -19, è ormai convinta di poter fare a meno dell’Occidente. Si moltiplicano perciò le iniziative domestiche in ogni campo, specie il tech, per dimostrare di poter fare da soli.
Usa e Cina sono sempre più distanti. E l’Europa, in mezzo, prova un profondo imbarazzo. Specie la Germania che stenta a prendere atto che la sua politica mercantile, che l’ha resa la prima potenza esportatrice dl pianeta, ormai non regge più. È difficile essere amica di Pechino, il primo partner commerciale senza indispettire Washington, sperando che Xi Jinping accetti senza reagire una critica sulla repressione degli Uiguri. È un’illusione pensare che Biden chiuda un occhio di fronte al gasdotto del mar Baltico che, aggirando la Polonia, aumenta la dipendenza di Berlino da Mosca. La Germania, nel crepuscolo di Angela Merkel, è l’ombra di quella guida autorevole dell’Unione europea che dovrebbe discendere dalla sua leadership economica. E l’Europa, dopo aver subito per anni la politica dell’ austerità, scopre di aver accumulato un forte ritardo sulla strada della ricerca e della crescita, come dimostra il gap sui vaccini.
È in questa cornice che ha preso corpo l’ultimo “whatever it takes” di Mario Draghi: un nuovo e diverso Patto di stabilità e soprattutto una sorta di eurobond per preservare i Paesi europei da nuovi shock finanziari. Qualcosa di più e di diverso da una nuova boccata d’ossigeno finanziario che contempli la possibilità di fare debiti “buoni” e di ripagarli con modalità e tempi ragionevoli. Ma anche un mercato dei capitali comune con garanzie e vincoli più stretti. Un obiettivo ambizioso, forse troppo, ma con un grande jolly: alternative non se ne vedono.
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