Cominciamo oggi un breve percorso in alcuni dei film candidati al premio Oscar che sarà assegnato il 25 aprile.
Il successo di un film come Sound of Metal è una testimonianza indiretta di un’annata cinematografica strana e irripetibile, nel bene e nel male. Non perché il film diretto da Darius Marder sia un film brutto, ma perché un’opera del genere difficilmente in altri anni avrebbe potuto racimolare 6 nomination agli Oscar, tra cui quella per il miglior film. Perché è un film indipendente che, a differenza di altri film indie con i piedi nelle major (e anche qui, c’è lo zampino di Sony più che di Amazon che distribuisce con Prime Video), sembra più interessato a rimarcare la propria indipendenza, la propria limitatezza produttiva che a cercare di accattivarsi lo spettatore.
Il protagonista (Riz Ahmed bravissimo, nominato) è un batterista di un duo Metal d’avanguardia che sta perdendo l’udito e deve capire come fare ad andare avanti senza, a racimolare i soldi per l’intervento con cui applicare un apparecchio, a elaborare il trauma, ma soprattutto come tornare a comunicare con un mondo che fino a quel momento aveva tenuto fuori, isolato dall’arte e dall’amore.
Marder, all’esordio alla regia, ha ereditato il progetto da Derek Cianfrance che ha scritto con lui la sceneggiatura (nominata), e a vedere bene il film si muove sulle coordinate sociali e narrative del regista di Blue Valentine e Come un tuono, siamo dalle parti del melodramma alternativo, con personaggi che vivono ai margini della società – in questo caso per scelta – e che un dramma costringe a fare di nuovo i conti con quella società, un film sulla rinascita e sull’accettazione, un po’ didattico forse.
Che però ha due buone frecce al suo arco: la prima è il lavoro sul personaggio principale con cui si cerca di evitare più possibile certi stereotipi e convenzioni raccontandone un percorso sensoriale prima ed esistenziale poi; la seconda è il lavoro sul suono (nominato) che porta lo spettatore dentro la percezione del protagonista, circondandolo di rumori ovattati, di suoni incomprensibili oppure di stridii metallici che poco a poco diventano comprensibili, ma mai pienamente, come se il mondo intero fosse diventata la performance noise con cui il film si apre.
La sua principale originalità è fare del suono come materia il veicolo per concentrare lo sviluppo del film, metterlo al servizio del personaggio e fare il dispositivo registico del film, portando lo spettatore a chiedersi cosa è la musica, cosa sono suoni e frequenze, ribaltando la distinzione tra sentire e ascoltare perché in un mondo senza orecchie la percezione è una faccenda diversa.
Non è un film originale o dalla tecnica sconvolgente Sound of Metal (e per questo sorprendono le nomination), ma un film abbastanza compatto, che sa cosa vuole raccontare, che usa Ahmed come una pila pronta a esplodere carica, a ricaricarsi, a implodere, che soffre solo per un terzo atto più convenzionale, in cui si cerca di ricomporre i dissidi nel modo più facile dentro l’ambiente borghese, ma che per fortuna trova un finale bello e sincero. Marder sa come camuffare la prevedibilità del dramma con la sicurezza del racconto e anche questa è una risorsa, specie per un esordiente.
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