A circa dieci anni di distanza dallo sfolgorante e apocalittico La caduta di Bisanzio (Jaca Book 2010), Alessandro Rivali torna in libreria con un nuovo poema potente e visionario dedicato alla figura di Caino. La terra di Caino, recentemente pubblicato nello Specchio Mondadori, è un originale viaggio sotto il segno della figura biblica di un Caino ramingo e fuggiasco, rivisitata con inedita forza: “Abele, fratello mio, / considera solo mia la colpa, / non riversarla sui figli. / Oppure, rendimi sterile / per non continuare a cadere / e perpetuare la catena del male”. Non sappiamo quali fonti o suggestioni profonde abbiano originato nell’autore l’idea di un Caino capace di chiedere perdono e “sognare una vita nuova”, attraverso la pietas cristiana di un dramma che supera la colpa irredimibile della tragedia greca, destinata ad una lunga scia di sangue. Pur sostando “ai crocevia del male” Caino – specchio della coscienza del poeta – sogna la terra promessa dei mistici e dei profeti, quel Paradiso cercato da Pound, che nei Cantos sperava in un amore incorruttibile: “Quello che veramente ami rimane, / il resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità”. Pur conoscendo i territori del buio, con ancora più forza il Caino di Rivali chiede alla luce di spalancarsi in nuove, impreviste epifanie: “come Giovanni della Croce / o Ungaretti sul San Michele”.
Il tentativo di Rivali – comune all’inconsapevole naturalezza della grande poesia – è quello di proiettare i luoghi e gli eventi del proprio vissuto in una dimensione mitica e simbolica, di ricostruire attraverso la parola i frammenti di un mondo. Un’umanità incapace di trovare miti e di “ricreare il mondo intorno a sé”, scriveva il greco Odysseas Elytīs, trova infatti “il modo di invecchiare e anche molto velocemente” (Il metodo del dunque, Donzelli 2011). La poesia di Rivali sa guardare all’epopea di Gilgamesh come al Libro dei morti, attraversare i fronti alpini della Grande Guerra e le steppe ghiacciate del Don oppure narrare l’avventura del padre, fuggito bambino dai roghi di Barcellona del ’36: “Il padre placava l’insonne / con racconti di roghi lontani, / famiglie in fuga dalla guerra. / La scia del piroscafo rifletteva / il requiem di Barcellona”.
Al centro di questa poesia, così pervasa da echi biblici e tensioni apocalittiche, c’è la storia con i suoi drammi e le sue ferite ma allo stesso tempo misteriosamente attraversata da una “idea del bene”. Così la “cartografia del dolore” sa anche avvistare i segni del Paradiso nel mirabile teatro del mondo naturale e animale, guardare con Giampiero Neri agli immaginari “occhi di Dio” impressi sulle ali delle farfalle, alla “festa bianca delle orchidee” o alle “falene sospese nel vento”.
C’è qualcosa, sembra dirci Rivali, che sopravvive agli orrori della storia, come i manoscritti di Varujan riemersi dalle macerie del genocidio armeno. Una luce può splendere anche attraverso le tremende visioni di Brueghel, brillare spes contra spem lì dove l’uomo sa ancora ricordare “promesse e giardini”. Così Caino in fuga si aggira tra le tombe del Monumentale o tra quelle solitarie di Staglieno a Genova, cercando nelle storie impresse sulla pietra una promessa di vita: “Esaminate i nodi del passato, / non restate senza seguito, / inseguite solo vite feconde”.
Una delle sezioni più intense del libro è dedicata a Ötzi, la mummia imprigionata come un dannato dantesco tra i ghiacci del Similaun. Caino-Ötzi è l’uomo chiamato a ripercorrere il mistero della propria origine: “Dal ghiacciaio del Similaun / le dorsali diventano generazioni: / ora l’essiccato vede l’origine. / Metamorfosi della materia. / Pianure. Pitture. Selci. / Il tempo chiamato indietro”. In questo processo di espiazione e spoliazione l’uomo ritrova quell’“azzurra sete di Dio” che si respira tra le vette immacolate, i suoi occhi intravedono “l’Eden / oltre la mandibola delle Alpi”. In questa ricerca dell’origine si sovrappongono archeologicamente strati e millenni di storie, dai graffiti di Lascaux agli “uomini anneriti” dall’uragano atomico di Hiroshima, visto con gli occhi del medico Michihiko Hachiya: “Il medico annotava. / La sete dei ciechi. / L’odore dei corpi. / Sardine bruciate. / La mancanza di elettricità. / Le torce dei morti nel buio”.
Con Il sogno di Caino siamo ricondotti ai territori dell’infanzia e Caino, attraverso un processo di metamorfosi interiore, comprende la strada possibile del perdono e della misericordia. Una nuova luce penetra “il muro della terra” di caproniana e dantesca memoria: “Non era muta la via del perdono, / era possibile un ritorno, / collirio agli occhi dei bruciati”. Il perdono offerto a Caino, ora in viaggio come un pellegrino medievale, è quello estremo e totale di Cristo che, dall’alto della croce, promette il Paradiso al buon ladrone: “E all’imbrunire il ladro era un ibis, / acrobata tra le acque del paradiso”.
L’ultima sezione, dedicata alla statua di Margherita di Brabante (1276-1311) scolpita da Giovanni Pisano, è l’occasione per Rivali di riflettere intimamente sul dolore privato e universale che attraversa la “ragnatela della storia”. Il poeta chiede a Margherita, figura di speranza, di ricongiungere i frammenti dispersi della propria esistenza: “salvami dalle relazioni rauche, / lasciami la pietra della memoria”. La stella fissa di Pound torna a brillare con il suo Paradiso, dal sangue versato nella storia si prepara a nascere una nuova vita: “Perché questa fiumana di porpora / sbiadisca in un estuario azzurro / e io riveda la fonte e i giardini”.
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