“La pandemia ci ha insegnato la realtà delle cose. La malattia e la morte ci minacciano, mentre noi pensiamo di averle allontanate e addomesticate. L’America non ha saputo unire le forze e il Re si è scoperto nudo”. Lo dice al Sussidiario l’arcivescovo Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti, nominato da Papa Francesco nel 2016.
Pierre non risparmia critiche Chiesa, che – ammette – non ha annunciato il Vangelo. Ma un cambiamento è possibile, per tutti, perché l’iniziativa è di Dio. È la pasqua di Resurrezione. “La presenza del Figlio del Padre in mezzo a noi ci aiuta a riscoprire che siamo fratelli. Certo, l’operazione è difficile, perché si tratta di invertire la tendenza, di ripartire da un reale che avevamo eliminato dalle nostre prospettive: tutti fratelli perché Dio è nostro Padre. Il metodo ce lo propone Cristo stesso, è la misericordia”.
Cosa ci insegna questo anno di pandemia? E qual è l’appello che sta rivolgendo questo mistero che è il Covid al popolo americano?
La pandemia ci ha insegnato la “realtà” delle cose; è una maestra terribile, che ci fa uscire dalle zone di conforto nelle quali ognuno di noi si insedia facilmente. La lista sarebbe lunga da enumerare. Siamo diventati fragili, vulnerabili. La malattia e la morte ci minacciano, mentre noi pensiamo di averle allontanate e addomesticate. Un anno prima delle elezioni presidenziali, l’America, che si era si arroccata nell’illusione di trovare la sicurezza e la felicità isolandosi e chiudendosi in se stessa, si è trovata dirottata e non ha saputo unire le sue forze per fornire risposte concrete, al di là delle proprie rivalità sociali e ideologiche. Il Re si è scoperto nudo.
E la Chiesa?
Noi, dopo la chiusura dei nostri luoghi di culto, per motivi evidenti, non abbiamo potuto rispondere rapidamente ed efficacemente alle esigenze della nostra missione e cioè annunciare il Vangelo, qualsiasi fosse il contesto e le circostanze. “Guai a me se non annunziassi il Vangelo”.
Non è chiaro se questa malattia globale che è entrata nelle nostre vite ci abbia reso migliori o peggiori. Secondo lei?
Sì, si tratta di una malattia globale, come dice lei. Non solo perché nessuno ne è risparmiato, ma anche perché la pandemia tocca tutte le dimensioni della nostra umanità, a livello personale quanto sociale. Tale infermità è veramente penetrata nelle nostre esistenze. Ci ha reso migliori?, lei chiede. La società americana sembrava volersi proteggere dalle minacce esterne e interne costruendo sistemi fisici e ideologici, giustificandosi con tali fabbricazioni. Tuttavia, la malattia e la morte hanno invaso le imprese, le scuole, i mezzi di trasporto, gli ospedali, gli asili, le carceri e anche le chiese. La solitudine imposta ci ha obbligati a interrogarci sul senso della nostra vita, e ritrovare un “essenziale”, personale, familiare, comunitario e anche politico.
La sua risposta?
Siamo diventati migliori facendo esperienza di nuovi gesti di solidarietà, di mutuo aiuto e di dono di sé. La lista dei nuovi eroi è impressionante: tutti coloro che hanno saputo, nell’esercizio ordinario del loro lavoro, delle loro responsabilità, vincere la paura mettendosi al servizio degli altri, senza alcuna pubblicità, con pazienza, competenza e coraggio. Hanno dato la propria vita: quanti sono tra i medici e gli operatori sanitari e i sacerdoti, e servitori nei servizi pubblici. Dobbiamo misurare la forza della loro testimonianza.
Come si superano la paura, la sfiducia, il rancore?
Paura, sfiducia, rancore: abbiamo visto questi sentimenti all’opera in noi e nella società, come se le nostre esistenze avessero perso il proprio fine. I rimproveri lanciati gli uni contro gli altri, particolarmente nel contesto di una società polarizzata, ci hanno spesso impedito di costruire a partire dal dato reale, il quale era diventato misterioso, sconosciuto, indecifrabile.
È questa estraneità che ha generato paura?
Sì. Personalmente sono rimasto impressionato dalla Statio orbis di Papa Francesco venerdì 27 marzo 2020, sulla piazza San Pietro completamente deserta. Diceva il Santo Padre: “Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sopra le nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite, riempiendo tutto di un silenzio assordante, e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi”. Durante questo momento straordinario di preghiera Papa Francesco citò l’episodio della tempesta sul lago (Mc 4, 31–41); i Discepoli dissero a Gesù: “Maestro, non ti importa che siamo perduti?”, egli rispose: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Il Papa ci invitò tutti a prendere coscienza che siamo tutti nella stessa barca, e che in questa barca c’è Lui.
Secolarizzazione estrema, come in America, vuol dire guardare l’uomo senza guardare Cristo in lui. Senza vedervi nemmeno più un fratello. Che cosa vuol dire annunciare Cristo in “questo” mondo, in questa America?
“Secolarizzazione” significa sognare di risolvere tutto con le nostre sole forze e pensare che possiamo costruire, e ricostruire, il mondo a nostro modo. Il Papa disse: “La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte queste false sicurezze con le quali abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità”. Il Papa ci ha offerto alcune piste. La prima: è rimasta scoperta quell’appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci, l’appartenenza come fratelli. La seconda pista si trova in questa frase: “Ora, mentre siamo in mare agitato, t’imploriamo, ‘svegliati Signore!’. (…) Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede, che non è tanto credere che tu esista, ma venire a te e fidarci di te”. Tale chiamata alla fede già, purtroppo, non faceva più parte della nostra vita. Il mondo che pensavamo di costruire era diventato individualista e materialista, secolarizzato; e per proteggerci dall’altro facevamo di tutto per escluderlo ed isolarci.
E invece?
Invece, la presenza del Figlio del Padre in mezzo a noi ci aiuta a riscoprire che siamo fratelli. Certo, l’operazione è difficile, perché si tratta di invertire la tendenza, di ripartire da un reale che avevamo eliminato dalle nostre prospettive: tutti fratelli perché Dio è nostro Padre. Il metodo ce lo propone Cristo stesso, è la misericordia. La misericordia rompe tutti gli schemi, è la logica dell’amore, che alla fine vince. Cristo, di cui celebriamo oggi la morte, ha vinto la battaglia perché non ha esitato a dare la vita per amore. L’amore non muore, apre alla risurrezione. Per tale motivo il Papa ci diceva: “È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di te, Signore, e verso gli altri”.
“La croce non si negozia” ha detto papa Francesco nella messa del crisma, dove ha svolto un denso “magistero della Croce”. In che modo quello che ha detto il papa incontra di più i problemi della chiesa statunitense?
“La Croce non si negozia”. Sono parole forti. La Croce la troviamo sul nostro cammino: la povertà, l’odio, il razzismo, la polarizzazione – che purtroppo si è insinuata anche nella Chiesa –, il non rispetto della vita dall’inizio alla fine, il rigetto di quello che ciò che disturba la nostra tranquillità. È la croce di tutti quelli che soffrono ingiustamente. Davvero non si negozia. Tutti sono chiamati a unirsi, non separarsi, per trovare insieme soluzioni concrete. Non dimentichiamo che la vera politica, a tutti i livelli, è la forma più alta della carità.
Don Giussani ha detto che “Senza la Risurrezione di Cristo c’è una sola alternativa: il niente”. Lo dice la fede. Ma è sperimentabile una cosa così?
Sì, è sperimentabile. Così lo diceva Papa Francesco, e mi permetta di citarlo ancora una volta, con parole magnifiche: “Quanta gente esercita ogni giorno pazienza, e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico, ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare una crisi, riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti”. Tocca a noi di incarnare questo nella nostra vita quotidiana, dando vita a quel volto di Chiesa come madre che accompagna in ogni circostanza della vita.
(Federico Ferraù)
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