La grande manovra fiscale da 1.900 miliardi di dollari annunciata negli Usa dal presidente Joe Biden è visibilmente costruita su idee ed esperienze consolidate, fin dal secolo scorso. È incontrovertibile l’approccio keynesiano che fu alla base sia del New Deal rooseveltiano negli anni ’30, sia del piano Marshall pro-Europa nell’immediato dopoguerra. E la leva degli investimenti pubblici è stata strategica nelle politiche economiche euratlantiche fin negli anni ’70: dal programma spaziale statunitense all’Autostrada del Sole in Italia.
Di quel “format” sono noti efficacia e limiti, opportunità e rischi. Dal keynesismo è nato l’archetipico National Health Service britannico, ma anche il “complesso militar-industriale” funzionale alla Guerra Fredda in America. L’Europa, dopo un’autodistruttiva “Guerra dei Trent’anni” riuscì a risorgere come continente pacifico, democratico e infine unito: capace di riaccogliere anche i Paesi sequestrati per decenni oltre la “cortina di ferro”. Per contro, in un Paese come l’Italia già negli anni ’70 proliferavano deficit, debito e inflazione, mentre a Bruxelles diventava egemone un’eurocrazia che, nel 2020 contro il Covid, non si è dimostrata più efficiente di quella sovietica, defunta da trent’anni.
Mentre l’Ue ha ora deciso di voler investire 750 miliardi di euro su un doppia transizione (ecologica e digitale), Biden sembra voler ripartire con obiettivi più classici, anche se non ancora del tutto definiti. Certamente negli Usa lo stato delle infrastrutture fisiche e sociali richiede una robusta manutenzione, dopo trent’anni di ultra-liberismo. E il rilancio del Medicare piuttosto che il riassetto delle reti essenziali (l’energia elettrica o i trasporti prima che le connessioni web veloci) presenta una chiara valenza politica: contrastare le diseguaglianze, la ferita più grave aperta della società americana.
La spesa pubblica per investimenti, nelle premesse, andrà a finanziare un numero rilevante di posti di lavoro a salario minimo legale rialzato; e nuove strutture di servizio pubblico nel deserto lasciato dalla privatizzazione mercatistica. È evidente la distanza con la linea di politica economica implicita nel fallito piano Amazon per New York: sgravi fiscali miliardari a una “giga-corporation” perché urbanizzasse una vasta area dismessa del Bronx, con la promessa di decine di migliaia di posti di nuovi “digital jobs”. Jeff Bezos – che si dice “democrat” – era appoggiato dal sindaco “democrat” di New York, Di Blasio, e dal governatore Cuomo. Ma è stato fermato dall’ala radicale del partito, impersonata dalla giovane deputata etnica di New York, Alexandra Ocasio-Cortez, e dal vecchio leader “socialista” Bernie Sanders.
Il piano Biden , d’altronde, sembra allontanarsi all’ortodossia keynesiana nella scelta di finanziare il “Recovery Plan” americano con un aumento parallelo dell’imposizione fiscale, principalmente sulle imprese, non con un incremento del deficit/debito federali. Le motivazioni macroeconomiche paiono mescolarsi con quelle politiche: saranno i macroprofitti di Google, Apple, Amazon e Facebook – e dei loro molto fratelli e cugini – ad assicurare il gettito principale della manovra in condizioni di stabilità di bilancio Si profila come una sorta di “patrimoniale/condono ex post”, spalmata negli anni, a restituire equilibrio economico ed equità politica alle finanze pubbliche Usa: senza prevedibili effetti depressivi netti sulla domanda di investimenti (e tendenzialmente neppure sulle alte quotazioni correnti a Wall Street) e con un impatto positivo di stimolo alla domanda di consumo.
Bezos può anche decidere di non acquistare il decimo aereo privato per la sua flotta aziendale o di non comprare un altro giornale come il Washington Post. Decine di migliaia di dipendenti Amazon, invece, difficilmente esiteranno a spendere subito in beni di consumo cinquanta o cento dollari al mese extra nel bilancio familiare. E pazienza se Amazon dovesse perdere anche qualche scampolo dei 3.160 dollari di quotazione attuale (sui massimi storici e +50% sul marzo 2020).
E in Europa? L’impegno di Mario Draghi – fin dal suo articolo-manifesto sul Financial Times un anno fa – è stato quello di disinnescare e superare “l’usato sicuro” rigorista di matrice tedesca: in base al quale non è mai il momento di accendere alcuna forma di stimolo pubblico. Il difficile viene però ora.
Non è ancora chiaro, anzitutto, come verrà finanziato il Recovery fund. Draghi, dal canto suo, ha già voluto chiarire con forza che un debito deciso “dall’Europa” andrebbe contratto “dall’Europa”, attraverso eurobond. Ed è evidente – vista dall’Italia, ma non solo – la prospettiva di collegare un “debito buono” pro-ripresa con una ritrovata fiducia capace di attrarre il robusto risparmio nazionale parcheggiato nei conti correnti bancari. È un percorso di finanza pubblica non più appoggiato su una politica monetaria espansiva: ma non diretto come quello delineato da Biden per gli Usa.
Sull’altro versante, la scommessa europea pare più ambiziosa nel puntare sull’imprenditorialità di italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, olandesi, eccetera. Investire su tecnologie digitali ed ecosostenibili – sulla re-infrastrutturazione “4.0” – non guarda alla creazione di Pil “maledetto e subito”. È invece una leva per rendere competitiva l’Azienda-Europa nel medio periodo: innovativa perfettamente a standard di Accordi di Parigi sul clima; capace di attirare capitali internazionali ma anche di creare consistenti opportunità di lavoro autonomo e dipendente. Il vero “usato sicuro” della civiltà europea.