Un tema oggi assai dibattuto è quello del venir meno negli ultimi decenni del senso della tradizione e della storia, spesso sostituito da una memoria molto selettiva in cui il passato è funzionalizzato ideologicamente a battaglie del presente. Si pensi a fenomeni come le distruzioni delle statue di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti in nome della rivendicazione dei diritti delle culture indigene, oppure alle frequenti negazioni dell’Olocausto nonostante l’insistenza sulla promozione di giornate della memoria, ma più in generale al fatto che la storia viene sempre meno studiata a scuola.
Di questo fenomeno hanno scritto in molti. Basti ricordare, tra le pubblicazioni recenti, il saggio di Adriano Prosperi Un tempo senza storia. La distruzione del passato (Einaudi, 2021) e il numero monografico della rivista Paradoxa dal titolo “Fine della storia?” curato da Giovanni Berardelli. L’origine di questo atteggiamento di fronte al passato è dovuta, secondo molti, a una concezione narcisistica e non relazionale dell’io, diffusa da tempo nella nostra cultura che, recidendo il legame con gli altri, anche con i contemporanei, lo recide pure con i nostri antenati e con le generazioni future. A ciò si aggiunge l’accelerazione dei tempi storici provocata dagli sviluppi della tecnologia e dai nuovi mezzi di comunicazione che tendono a ridurre l’esperienza ad un presente senza passato e senza futuro.
Ma perché coltivare la memoria del passato e la conoscenza storica? Per due ragioni: in primo luogo perché il senso del passato è connesso strettamente a quello del presente e del futuro. Senza una memoria viva capace d’infondere forza e senso del radicamento in una tradizione non si è in grado di progettare il futuro e di mettere in discussione il presente. La mancanza di speranza e di progettualità è connessa al venir meno del senso del passato. Come osserva Simone Weil: “Il futuro non ci porta nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto; dargli persino la nostra vita; e per dare bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati in noi. Fra tutte le esigenze dell’anima umana nessuna è più vitale di quella del passato”.
Ma v’è una seconda ragione dell’importanza della memoria che spesso non viene evidenziata e che non è di minor peso. Essa consiste nel fatto che la comprensione simpatetica del passato è strettamente connessa alla conoscenza degli altri e di noi stessi, quindi alla nostra maturazione come persone capaci di conoscerci e di conoscere. Per comprensione simpatetica o empatica del passato non s’intende giustificazione di tutto ciò che è stato fatto anche di male, ma capacità di comprendere la tradizione e di arricchirsi dell’esperienza di essa, scorgendo i condizionamenti dell’uomo nelle varie epoche e pure la sua capacità di agire liberamente promuovendo il bene o il male. Cercando di mettersi nei panni degli uomini del passato, si allarga la nostra esperienza umana.
Per esempio: la vita affettiva dei secoli passati deve essere profondamente contestualizzata per poter essere compresa. Non si comprende altrimenti che quelli che a noi appaiono e talora effettivamente sono limiti dovuti a condizionamenti sociali che non accetteremmo mai oggi, costituiscono talora il risvolto negativo di un ideale umano percepito come positivo e motivante. Si tratta, su altro piano, di comprendere, per esempio, come i totalitarismi del Novecento siano stati causati anche da un genuino e strutturale bisogno umano di appartenenza, al quale si è dato una risposta inadeguata in un periodo di frammentazione sociale, o come l’intolleranza rispetto al diverso sia una componente umana sempre presente nella storia come l’indifferenza morale (esattamente come accade oggi in altre forme).
Altrimenti, facilmente si condanna tutto o quasi del passato, assumendo una posizione moralistica, assolutizzando la prospettiva dell’oggi e rischiando di cadere in nuove e inavvertite forme di violenza. Ritrovare in noi le origini del bene e del male che si è compiuto ci rende più umani, più comprensivi con il prossimo e più aperti alle novità del futuro. Senza questo atteggiamento empatico non si comprende non solo il passato ma neppure la vita concreta dei numerosi emigranti che frequentano le nostre città e che appartengono a culture tradizionali. Non si comprendono neppure fenomeni dotati di un’intrinseca dimensione storica come le istituzioni di vecchia data e, in particolare, le chiese.
Insomma provare a comprendere empaticamente gli uomini del passato anziché bandirli dal nostro mondo interiore non ci rende necessariamente conservatori, ma più umani e aperti al futuro. Ma ciò è possibile se si è educati ad amare sé stessi, la propria storia. Soltanto chi è conciliato con la propria storia desidera veramente incontrare la storia altrui senza temerla per riscoprire sempre meglio la propria specificità.