“Ho sempre avuto bisogno di essere amata o ammirata. Provo un senso di terribile incertezza se un uomo ce l’ha con me o se perdo un amico. Non voglio nemmeno perdere un marito. Voglio tutto, continuamente e dovunque. Ho paura del deserto. Dio ti ama, dicono nelle chiese, Dio è tutto. La gente che crede ciò non ha bisogno di ammirazione, non ha bisogno di andare a letto con un uomo, si sente sicura. Ma io non posso inventarmi una fede”.
Bisogno di amore, sempre e continuamente, per non sprofondare nel deserto della vita. La solitudine che neanche il matrimonio è capace di riempire. Il desiderio, desiderio di felicità, di pienezza, che nulla, neanche l’amante, può soddisfare. E la fede, che si riceve per grazia, attraverso un incontro, non per propria volontà.
Fine di una storia, da cui sono tratte le parole di cui sopra, tra i tanti, bellissimi romanzi dello scrittore inglese Graham Greene (1904-1991) di cui qualche giorno fa sono ricorsi i trent’anni dalla morte, è senz’altro quello più autobiografico, ma, forse, anche quello meno capito. Greene nel libro racconta il tradimento prolungato della moglie Vivien e la storia che ebbe con un’altra donna, sposata anch’essa, Catherine Walston, storia che lo spinse sempre a meditare sui limiti umani, su peccato e redenzione, tradimento e possibilità di riscatto. Su tutti, certamente la storia del prete alcolizzato e rinnegato, ma alla fine santo, de Il potere e la gloria ne è l’esempio più eclatante. Ma Fine di una storia possiede un fascino unico che solo le opere scritte col proprio sangue possiedono.
Il cristianesimo di Greene non era moralistica accettazione, fu una dura lotta per tutta la vita. Convertitosi al cattolicesimo proprio per sposare la cattolica Vivien, rifiutò sempre l’etichetta di “romanziere cattolico” preferendo quella di “romanziere anche cattolico”. A una religione totalmente irrazionale e disincarnata, Graham Greene contrappone la forza di una fede che coabita nella carne e nell’anima, tra pensiero e materia, razionalità e affettività.
“Un racconto non ha né principio né fine: si sceglie arbitrariamente un certo momento dell’esperienza dal quale guardare indietro, o dal quale guardare avanti”. Sono le parole che aprono il romanzo, la cui storia si svolge in un periodo storico buio e tormentato dalla morte quotidiana, i bombardamenti su Londra da parte dei nazisti, dove nasce e si sviluppa la storia di Maurice Bendrix, scrittore squattrinato, che si innamora della moglie, Sarah Bertram, di un burocratico dipendente ministeriale, Henry Miles per la quale moglie il marito ormai non nutre più alcuna attrazione fisica, impegnato come è a svolgere per bene il suo mestiere ordinario e noioso. “Notai Sarah, credo, perché era felice: in quegli anni la sensazione della felicità era da tempo morta sotto la minaccia della bufera che si profilava all’orizzonte. La si trovava negli ubriachi, e nei bambini, molto raramente”. Lei era diversa, lei era speciale. Lei era un segno.
Greene, in un modo brillante che fa toccare con mano tutta l’insostenibile sofferenza di un amore impossibile, mette in luce la lotta interiore dell’uomo che sempre e mai riesce a cogliere la presenza del divino nel mondo ed eternamente lotta e cammina in bilico, contraddicendosi ad ogni passo, sostituendo l’amore con l’odio, unico modo per placare la sua ferita. “Che folle ero stato durante quei tre anni a figurarmi di averla in un modo qualsiasi posseduta. Non siamo posseduti da nessuno, nemmeno da noi stessi”. Nel muro di dolore fa però talvolta breccia una luce che illumina quella ferita: “Le parole dell’amore umano sono state usate dai santi per descrivere la loro visione di Dio”. È una lotta che solo Sarah, apparentemente, capisce non possa portare da nessuna parte: “Sono così confusa. Cosa stiamo facendo l’uno all’altra? Perché so che faccio a lui esattamente ciò che egli fa a me. Qualche volta siamo felici, eppure mai nelle nostre vite abbiamo conosciuto maggiore infelicità. È come se lavorassimo insieme alla stessa statua, la tirassimo fuori dall’infelicità l’uno dell’altra. Ma non ne conosco nemmeno il disegno”.
Un giorno accade qualcosa. Dopo uno dei loro incontri clandestini, una bomba cade sulla casa dell’amante, lasciandolo tra la vita e la morte. Sarah si offre in cambio della vita di lui, cosa che Bendrix capirà solo troppo tardi, sul letto di morte di lei. A far chiudere definitivamente la storia ma non l’amore (“Ci si può amare senza vedersi” dirà lei) è una promessa. Una promessa che Sarah non può e non riesce a infrangere, fatta ad un pretendente potente, anzi il più potente, del quale Maurice, l’amante e protagonista, non riuscirà a disfarsi mai. Questo pretendente potente e pericoloso è Dio, al quale Sarah donerà, dopo una lunga lotta interiore, tutto l’amore che non è riuscita a dare al suo amante. Perché quando una persona ama un’altra, quando la sua preferenza si dona all’altro, è Dio che attraverso quel gesto si sta comunicando.
Sarah arriverà addirittura a operare un miracolo, guarendo un bambino in fin di vita, cosa che Maurice non riconoscerà mai: “Pura coincidenza” dice. Attraverso quell’amore Dio si era comunicato a entrambi, come scrive lei nel suo diario, ed è così che si realizza l’insostenibile eternità di un amore fisico, oltre ogni limite umano, al di là della morte: “Ho mai amato tanto M. prima che amassi Te? O era veramente Te che amavo tutto quel tempo? Ho toccato Te quando toccavo lui? Tu eri lì che ci insegnavi a dissipare come l’insegnasti al ricco, in modo che un giorno non ci rimanesse più nulla salvo questo amore per Te. Ma sei troppo buono verso di me. Quando ti chiedo dolore mi dai pace. Dalla anche a lui. Dagli la mia pace; è lui che ne ha più bisogno”.
A Maurice resterà solo l’odio per quel Dio invadente che si è messo in mezzo fra lui e lei, facendo cremare il suo corpo in sfida a una sepoltura cristiana: “Fai risorgere ora quel corpo, se puoi”. E ancora: “Io ti odio, Dio, io ti odio come se Tu esistessi”. Che, alla fine, è un riconoscimento dell’esistenza di Dio anche questo.
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