La manifestazione dei ristoratori avvenuta martedì pomeriggio a Piazza Montecitorio è degenerata in qualche scontro con le forze dell’ordine. Minimizzare è d’obbligo. Dopo le prodezze alle quali siamo stati abituati dai vari gruppi antagonisti, retori del no (no-global, Tav, Vat, border e quant’altro), il bilancio degli scontri, grazie alla prudenza degli uni ed alla professionalità degli altri, è stato veramente modesto ed è inutile enfatizzare una violenza che, di fatto, è stata assolutamente risibile rispetto a quelle alle quali abbiamo assistito per anni.
Ma non è affatto opportuno minimizzare la rabbia che vi si è manifestata. In Italia gli esercizi pubblici legati alla ristorazione ed al tempo libero sono centinaia di migliaia e ciascuno di questi tiene in piedi una moltitudine di ragazzi e ragazze che le aziende non possono assumere, né potranno farlo domani mattina. La ristorazione collegata all’industria del tempo libero e del lieto disimpegno, in tutti i suoi ordini di grandezza – dalla piadineria alla pizzeria, fino alle sofisticate enoteche, passando per le birrerie e i ristoranti ordinari sempre più articolati e qualificati – è l’unica autentica industria che sia riuscita a crescere in Italia, assorbendo una mano d’opera che, da vent’anni, ha trovato chiuse le porte dell’impiego nell’amministrazione e nei servizi, pubblici e privati, dei quali ha goduto la generazione precedente.
Davanti a Montecitorio c’era gente che non ha avuto la possibilità di scegliere e che, come gli ambulanti di Milano, i commercianti di Napoli, i mercatali di Caserta ha colto le opportunità di lavoro là dove si trovavano. Sono altrettante aree lavorative possibili in un universo globale che si fa sempre più affollato ed è senza vie d’uscita. È infatti sostanzialmente scomparsa la pur impegnativa soluzione emigratoria. Emigrare è tanto meno possibile quanto più gli Stati di accoglienza hanno da tempo dismesso le politiche di inclusione, ma anche quanto più le ondate immigratorie provenienti da Est e soprattutto da Sud del mondo hanno completamente stravolto il quadro immigratorio.
Tutto questo per chiedersi: si crede, si crede veramente, che quanti hanno manifestato martedì pomeriggio sotto le finestre del Parlamento, siano assimilabili ad un gruppo di facinorosi, facilmente riducibili a spettacolo folklorico, o al peggio, a pericolosi estremisti? Proprio come le “camicie brune” che Bernard Henry-Lévy vedeva, senza dubbio alcuno, dietro il mondo disperato dei gilets jaunes? Si crede, si crede veramente che, quando i famigerati “ristori” – che già nel nome danno l’idea della disperazione del bicchiere d’acqua a chi ha bisogno di ben altro – arriveranno, i manifestanti rientrino sereni nelle loro abitazioni per qualche weekend in famiglia, lockdown futuri permettendo?
Ma quanta miopia politica ci vuole per non capire che, dietro le grida di disperazione di un mare di persone che non gode dell’immunità dello stipendio fisso e sente salire l’acqua alla gola, la rabbia non può non imboccare ondate di protesta sempre più estese? Si riesce o non si riesce a capire come anche la quieta serenità dei vaccini alle porte, una volta minacciata dalle varianti che rischiano di rendere tutto inutile, si riveli come una speranza fragile e finisca con il dare il colpo di grazia a chi è chiuso da mesi e non ha altri introiti rispetto al proprio lavoro, per il quale gli sono state legate le mani?
Si crede veramente che possa bastare il riaprire le scuole elementari, continuando a lasciare abbassate le saracinesche dei negozi di abbigliamento, pizzerie e birrerie, cioè di quello stesso mondo popolare che consente di far girare la nostra economia, per poter “convivere con il virus”?
L’universo societario non è a disposizione di qualsiasi compressione, non ci sono pazienze ulteriori, né giustificazioni accettabili. Si tratta di sfidare la ragione sanitaria ed aprire dove è possibile, cioè là dove le distanze di sicurezza siano sopportabili? Personalmente ritengo che la domanda meriti risposte puntuali e spiegazioni adeguate, non certo uno sprezzante silenzio. È quest’ultimo a rischiare di essere il vero carburante per ogni futura rivolta.
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