Nel 2020-2021, l’Italia, che quasi non cresceva da vent’anni, perderà, secondo le stime possibili oggi, tra il 5% e il 7% del Pil. Alla fine del 2022, secondo le ultime previsioni, non saremo tornati ai livelli di Pil del 2019, mentre Francia e Germania lo avranno fatto e, anzi, saranno sopra. Quando potrà cominciare la via della ripresa, che può essere perseguita unicamente con la riapertura delle attività produttive e con le riforme (che l’Unione europea ci spinge a fare da anni e che devono essere perseguite come elemento essenziale del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) come più volte visto su questa testata)?
Occorre fare una premessa. Pochi hanno letto il rapporto dell’Istituto superiore di sanità (diramato il 30 marzo). E’ un j’accuse nei confronti della politica del Governo giallo-rosso (il Conte-2) in quanto documenta che l’Italia è stato il Paese con più decessi tra i grandi Stati dell’Ue non per ragioni demografiche (l’età mediana e la proporzione della popolazione anziana sul totale non differisce da quella di Francia e Germania), ma per ritardi nella messa in atto di misure restrittive e disorganizzazione nell’attuazione di un programma pandemico (è in corso, tra l’altro, un’inchiesta giudiziaria che vede implicati a vario titolo vertici del ministero della Salute e della stessa Organizzazione mondiale della sanità).
Uno studio della Columbia University afferma che se avessimo introdotto le misure restrittive due settimane prima, le avessimo mantenute senza autorizzare spostamenti ai primi segni dell’estate, avremmo ridotto i decessi dell’85%. Degli inizi balbettanti e contraddittori del piano vaccinale, sino a quando è stato preso in mano dal Gen. Figliuolo, si è detto. Ci vuole una netta discontinuità nei confronti del Conte-2, anche modificando misure considerate “bandiera” del Movimento 5 Stelle, di cui parte dei parlamentari può, se vuole, passare all’opposizione. Quindi, aprire le attività produttive appena possibile, guardando con attenzione agli indicatori su contagi, ricoveri, decessi e vaccinazioni, soprattutto di anziani e di fragili, come peraltro indicato dal presidente del Consiglio. Si può essere più specifici?
Proposte interessanti sono emersi al Convegno organizzato dal Centro Studi Confindustria (Csc) la mattina del 10 aprile in occasione della presentazione del rapporto previsionale Csc imperniato su come “liberare il potenziale italiano”. In sintesi, l’arrivo spedito dei fondi del Pnrr e l’attuazione delle riforme può contribuire in misura essenziale alla crescita nel 2022 (circa l’1,2% aggiuntivo a quella che sarebbe l’espansione senza Pnrr), l’investimento pubblico è finalmente in ripresa, l’industria sta marciando verso il rinnovamento tecnologico, ma c’è molto da fare in materia di turismo e di politiche del lavoro
Soffermiamoci sul turismo, cui il rapporto Csc dedica un focus. Il comparto rappresenta il 10% del Pil, ha un forte moltiplicatore sul resto dell’economia, contribuisce quasi per il 30% all’esportazione di servizi, dipende per la metà circa dalla domanda estera e ha sofferto una perdita del 70% del fatturato. Il turismo ha necessità di date certe per le riaperture, perché il periodo di maggiore attività rischia di essere in gran misura perduto a vantaggio di competitori come Grecia e Spagna.
Si possono avere date certe mentre si naviga ancora a vista in materia di vaccinazioni e di andamento della pandemia? È senza dubbio difficile ove non impossibile. Si possono, però, definire indicatori e parametri che possano servire da guida. Ad esempio, soprattutto per un settore come il turismo, può essere stabilito, da un lato, cosa può essere riaperto e come (ossia quali segmenti specifici e con quali protocolli) e quando (ossia al raggiungimento di quali livelli di vaccinazioni e di quali indicatori di contagio, ospedalizzazione e letalità) si potrà ripartire. In particolare, si potrà definire di riaprire alberghi e spiagge con determinate regole di distanziamento e sanitizzazione, ma non attività, come le discoteche, che richiedono necessariamente contatti. Si deve, poi, controllare: l’estate scorsa sono dovuto scappare da una spiaggia dell’Adriatico dove il gestore favoriva l’assembramento anche perché si considerava “intoccabile” in quanto parente di un vigile urbano di rango.
Le riaperture dovrebbero, in ogni caso, essere affiancate da riforme, tema più volte trattato su questa testata, in particolare quelle della giustizia, della Pubblica amministrazione, del riassetto tecnologico, della sanità. Ciò che è particolarmente urgente – ce lo ha rammentato di recente l’Ocse – e che deve essere fatta in parallelo con le riapertura delle attività produttive, turismo in primo luogo, è il welfare.
A ragione della nostra struttura demografica e dei nostri vincoli di finanza pubblica, i problemi dell’Italia nell’assicurare un adeguato e sostenibile welfare sono più gravi di quelli di gran parte degli altri Paesi industrializzati ad alto reddito medio. D’intesa con le Regioni e le Province autonome, si dovrebbero fondere, in parallelo con la riapertura e per ottenere economia di scala e guadagni di efficienza, vari istituti oggi frammentati: un esempio eloquente è quello del “reddito minimo di inserimento”, del “reddito di cittadinanza“, del “reddito di emergenza” e del “reddito di emersione”. I quattro istituti dovrebbero essere unificati al più presto.
Inoltre, l’esperienza internazionale e la stessa casistica italiana indicano che le misure di sollievo dalla povertà, essenziali per evitare che la “rabbia sociale” già serpeggiante, blocchi la ripresa, non si gestiscono bene in modo centralizzato e sulla base di modulistica e autodichiarazioni, da verificare spesso dopo avere elargito gli aiuti. Ci vuole un alto grado di sussidiarietà: probabilmente, è a livello dei “servizi sociali” dei Comuni che si possono meglio individuare e assistere i veri poveri. Ciò comporterebbe anche una chiara separazione tra assistenza e previdenza nei conti Inps, attualmente effettuata – come rileva da anni il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – solo parzialmente, con l’effetto di falsare la posizione dell’Italia nelle statistiche e nei confronti internazionali.
Si dovrebbe, poi, distinguere nettamente tra politiche, programmi e misure di sollievo e fuoriuscita dalla povertà, da un lato, e politiche dell’occupazione e dell’impiego, dall’altro. Sono proprio i dati sui pochissimi beneficiari del “reddito di cittadinanza” che trovano lavoro a dimostrarlo e a suscitare in materia seri interrogativi, anche sulla coesistenza non sempre pacifica tra l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) e le Regioni e le Province Autonome a cui fanno capo i Centri per l’impiego. In questo campo – si deve riconoscere – il Governo sta intervenendo anche per porre fine a una situazione divenuta tragicomica e oggetto di dileggio in Italia e all’estero.
Infine, si deve porre rimedio al sottofinanziamento della sanità e ci si deve chiedere se l’attuale suddivisione tra Stato e Regioni e Province autonome della politica, dei programmi e delle misure in materia di sanità sia ottimale, come più volte sottolineato su questa testata.
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