Con il ritorno in classe di milioni di studenti e in vista delle prossime riaperture decide dal governo, torna d’attualità – accanto ovviamente alla buona riuscita della campagna vaccinale – il tema della sorveglianza e del contenimento dei contagi. Nelle precedenti ondate dell’epidemia il tracciamento è stato un vero e proprio tallone d’Achille delle strategie anti-Covid. Ma ora la cassetta degli attrezzi del contact tracing può contare su uno strumento in più: i test salivari.
Lo dimostra un programma che l’Università di Padova sta portando avanti dall’8 ottobre 2020: in base a uno studio, condotto nel periodo inizio ottobre-25 dicembre, cui ha aderito l’86% dei 6.500 dipendenti dell’Azienda ospedaliera, i test salivari hanno dimostrato un’efficacia del 98% nell’individuare soggetti positivi, poi confermati dai tamponi naso-faringei. Una tecnica, tra l’altro, meno invasiva e che può contare sul fatto che “la strumentazione idonea all’analisi della saliva è presente in moltissimi laboratori”. “Il programma è ancora attivo e procede con ottimi risultati”, sottolinea il professor Mario Plebani, direttore del laboratorio di analisi dell’Azienda Ospedale/Università di Padova e coordinatore dello studio.
Perché un tampone salivare?
Dovendo realizzare un programma di controllo attivo ogni 15 giorni, è impossibile avere una buona adesione con il tampone naso-faringeo, che è molto fastidioso e richiede la presenza di personale addestrato e protetto con camici speciali, guanti, visiera e mascherina. È un sistema che pone problemi di sostenibilità. Il campione salivare invece viene raccolto in casa, senza l’ausilio di alcun operatore esterno e senza possibilità di rischio di contagio.
Come funziona?
Ogni 15 giorni i dipendenti raccolgono al mattino, prima di fare colazione e di lavarsi i denti, la saliva, masticando per un minuto un piccolo cilindro di cotone, che poi viene riposto all’interno di una provetta, etichettata con un codice a barre che identifica in modo univoco quel campione di quel soggetto. A sua volta la provetta va infilata in un sacchetto di plastica a chiusura ermetica. A quel punto il dipendente, quando va a lavorare, ripone il suo sacchetto in uno dei contenitori piazzati in 8 plessi di raccolta.
I campioni raccolti come vengono processati?
Nel nostro Laboratorio noi facciamo una determinazione molecolare, la stessa che veniva eseguita su un tampone naso-faringeo. E il responso arriva nel giro di tre ore. Nei casi positivi scatta immediatamente il contact tracing, che funziona: oltre a rintracciare il Sars-Cov-2 nella saliva, in caso per esempio di un docente positivo, abbiamo anche una app molto sofisticata che ci consente di identificare tutti gli studenti che hanno avuto contatti ravvicinati.
Quanto è affidabile questo metodo?
Abbiamo avuto il 98% di confrontabilità, cioè in 98 casi su 100 il test salivare ha fornito lo stesso esito del naso-faringeo. E nel restante 2% il salivare si è dimostrato più affidabile, scovando soggetti in cui la malattia era in una fase molto precoce. E tutto questo ci ha portato a evitare dei cluster. Anzi, nel periodo in cui abbiamo condotto lo studio, il tasso di infezioni in università era pari all’1,8%, mentre nei dipendenti che non hanno aderito al programma questo tasso era cinque volte maggiore e nella popolazione generale di Padova in quello stesso periodo si aggirava intorno al 15%. Insomma, è un programma di controllo attivo che riesce a ridurre i contagi.
Come può essere utilizzato?
Per esempio, nelle scuole. Stiamo studiando un sistema per la raccolta della saliva più semplice, adatto anche ai bambini delle materne. E il massimo sarebbe attuare la ricerca non con un test molecolare, ma con un antigenico rapido. Chiaro che per farlo bisognerebbe poi mettere in campo una catena logistica ad hoc per garantire il trasporto dai centri di raccolta ai laboratori. Il test salivare potrebbe essere utilizzato anche a domicilio o nelle strutture sanitarie e nelle aziende che hanno l’esigenza di controllare il personale in maniera continuativa, appoggiandosi nella raccolta delle provette alle farmacie, che poi provvedono a recapitarle ai laboratori.
In arrivo c’è anche il test del respiro. Di cosa si tratta?
Premesso che questo test non è sconosciuto perché già lo utilizziamo per l’infezione da Helicobacter Pylori, c’è qualcosa nel respiro dei contagiati Covid che i cani, dotati di recettori molto più sofisticati dell’uomo, fiutano. Con gli strumenti di spettrometria di massa si sono studiati questi gas volatili, poi si sono miniaturizzati questi sensori, che ora devono essere standardizzati, con marcatura e stabilizzazione, in vista di una loro commercializzazione. La prospettiva è molto promettente e basata su evidenze scientifiche consolidate. Sarà uno strumento utilissimo, specie se applicato sui bambini e sui soggetti fragili al posto del tampone naso-faringeo.
Entro quanto tempo potremmo disporre di questi sensori?
Penso nel giro di qualche mese.
Perché in queste prime tre ondate abbiamo perso la sfida del test & tracing?
Il sistema dei tamponi, per come è stato organizzato finora, non raggiunge gli obiettivi prefissati, sia perché i risultati non arrivano rapidamente, sia perché non c’è sufficiente capacità di rintracciare i contatti ristretti del soggetto positivo. Ogni sistema va studiato per arrivare a isolarli, evitando così sul nascere i cluster.
Test molecolari, antigenici e salivari: queste tre metodologie possono coesistere?
Lo dico da tempo: a seconda del setting, i tre test sono complementari. Nei pronto soccorso il tampone naso-faringeo con rilevazione molecolare resta il gold standard. I test antigenici, anche perché nel frattempo sono migliorati, possono essere riproposti dove c’è una comunità residente, come in una Rsa o nelle carceri: non hanno la stessa sensibilità del molecolare, ma possono essere eseguiti frequentemente senza rischiare di dare dei falsi negativi. E possono essere eseguiti, al posto della misurazione della temperatura corporea, che è totalmente inutile, per garantire l’accesso a musei, cinema e altri luoghi di aggregazione, escludendo gran parte dei potenziali diffusori. Il test salivare, infine, va molto bene per tutta quella fetta di popolazione di cui abbiamo parlato prima e nelle fasi di screening, perché dà risultati pari per accuratezza al naso-faringeo, essendo però meno invasivo.
Il combinato disposto di vaccini e test può aiutare a riaprire in sicurezza?
Sono assolutamente propenso a credere che si possano riaprire in sicurezza molte attività, a partire da quella fondamentale della scuola, grazie soprattutto alla campagna vaccinale e al mantenimento delle norme di protezione, ma introducendo anche programmi di sorveglianza e contenimento. E progressivamente potremo andare a regime.
Con il test salivare si potrebbe “dare la caccia” con successo agli asintomatici, che sfuggono invece ai tamponi?
Certo. Ci sono dati molto solidi che dimostrano come all’inizio dell’infezione è proprio nella mucosa orale e nelle ghiandole salivari che s’annida il virus.
Le varianti del Covid sono più contagiose e questo paradossalmente rende più “facile” individuare asintomatici, presintomatici e paucisintomatici?
Nella variante inglese abbiamo visto un aumento della carica virale. Se i sistemi vengono settati per riconoscere queste varianti, con il molecolare, con alcuni antigenici siamo facilitati, perché il segnale è più chiaro.
Quindi è possibile recuperare un tracciamento più efficace?
Con una campagna vaccinale in corso, che speriamo possa ancor più accelerare, questi test rendono possibile predisporre un contact tracing efficace.
I contagi negli ultimi giorni stanno rallentando, ma si effettuano meno tamponi. È un errore?
Certo. Dobbiamo continuare ad affiancare alla campagna vaccinale tutte le misure di precauzione che evitano il diffondersi dei contagi: il numero di tamponi non può e non deve calare.
Lei ha condotto anche degli studi sulla risposta immunitaria al Sars-Cov-2. In quanto tempo si sviluppano gli anticorpi e per quanto rimangono a difesa dell’organismo?
Sappiamo con certezza che dopo il quattordicesimo giorno il 99% dei soggetti non immunocompromessi ha una risposta anticorpale e la durabilità nel tempo degli anticorpi persiste fino a 8-9 mesi. I dati più recenti ci mostrano però che esistono due popolazioni: quelli che mantengono più a lungo gli anticorpi e quelli che invece registrano una diminuzione più rapida.
A cosa è dovuto?
Alla risposta del sistema immunitario, delle cellule della memoria e alla gravità dell’infezione. La risposta anticorpale, soprattutto dopo la seconda dose di vaccino, è molto forte e permette all’organismo di rispondere meglio all’attacco delle varianti brasiliana e sudafricana. Diventa meno efficace se si dilazionano troppo i tempi di somministrazione.
Dove sta il problema?
Nella quantità di anticorpi neutralizzanti generati dalla vaccinazione. Se questa quantità non è sufficiente a debellarlo, il virus si ribella e forma poi varianti. È necessario allora creare con la vaccinazione una risposta anticorpale tale da sconfiggere totalmente il Covid, senza dargli la possibilità di replicarsi. Meglio, in definitiva, rispettare i tempi prescritti tra una dose e l’altra, senza allungarli troppo.
Allo Spallanzani è partita una sperimentazione sulla seconda dose di vaccino anti-Covid, dopo la prima con AstraZeneca, utilizzando altri sieri, tra cui lo Sputnik. Che ne pensa?
Come ha detto un famoso virologo: su questo non abbiamo uno straccio di dato scientifico. Fa bene quindi lo Spallanzani ad avviare uno studio: vedremo i risultati. Teniamo conto, però, che in futuro dovremo sottoporci a vaccinazioni con sieri diversi. Il Covid non scomparirà con una sola campagna vaccinale, molto probabilmente torneremo a vaccinarci a distanza di 6-8-12 mesi. Ma questo ce lo dirà la scienza.
(Marco Biscella)
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